Aleksej German, un maestro senza compromessi
Festival del Film di Roma Il Festival omaggia il grande cineasta scomparso con il Premio postumo alla carriera e presenta il suo film «È difficile essere un dio», memorabile capolavoro, resa dei conti con il passato
Festival del Film di Roma Il Festival omaggia il grande cineasta scomparso con il Premio postumo alla carriera e presenta il suo film «È difficile essere un dio», memorabile capolavoro, resa dei conti con il passato
Un’umanità che si è decomposta nei sotterranei della storia o meglio dello spazio, in un luogo che non è la terra, una memorabile resa dei conti sotto forma di capolavoro è “Trudno byt’ bogom” (È difficile essere un dio) di Aleksej Yurevich German il maestro del cinema russo scomparso nel febbraio di quest’anno a cui il Festival del Film di Roma assegna il premio postumo alla carriera, regista a lungo combattuto, non a caso autore di soli sei film tra cui “Il mio amico Ivan Lapshin”, “Venti giorni senza guerra”, “Khrustaliov, ma voiture!” che hanno scandito il vario corso della censura nel suo paese. Non può essere la Terra così dolce e accogliente il luogo di ferocia e ingiustizia che ci appare sullo schermo. Non può essere la Terra dove non scorre il sangue innocente, questo villaggio cresciuto tra gli strumenti di tortura, attorno a un castello circondato da paludi.
Qualcuno lo ha chiamato «Rinascimento», ma senza alcun rinascimento di lettere e arti, che anzi sono vietate e i letterati costituiscono la maggior parte dei giustiziati, inutili e dannosi per lo stato, perseguitati perché creano l’arte per un popolo che non conosce la bellezza. Un «rinascimento» feroce come un medioevo barbaro, proprio quello che Konchalovskij ci diceva essere l’era in cui la Russia era ancora ferma. Fratacchioni, musicisti, viandanti, fango e maiali, armature, spade affilatissime, catene e segrete per la tortura, sporcizia, escrementi e sangue. Il tutto non disposto nella maniera aggraziata come ha fatto il cinema italiano, saloni deserti e nobili tutti in fila, cortigiane silenziose, banchetti geometricamente disposti: qui siamo in un medioevo non solo visto da vicino, ma che abbiamo l’impressione di aver scampato.
Il punto di partenza del film è il romanzo del ’64 dei fratelli Strugackij (gli stessi di “Stalker”per Tarkovskij), un classico su cui anche Herzog ebbe modo di confrontarsi e che ora è anche un videogioco russo: quando il comunismo è ormai un fatto compiuto sulla terra, si scopre un pianeta dove la gente vive come nel medioevo e si decide di mandare un gruppo di osservatori che non potranno interferire con il corso degli eventi.
Ma uno di loro che chiamano Don Rumata, si lascia in qualche modo coinvolgere. Si presenta nel film come il perno della storia, figlio naturale di un dio pagano, non ha mai ucciso nessuno, al massimo tagliato qualche migliaia di orecchie in duello, tuti lo temono, è seguito da uno stuolo di schiavi incatenati, immerso nell’osservazione dei conflitti locali tra il potere – l’Ordine – e l’avvicendamento di chi si pone al comando. Possiede la divinità di uno zar terribile, l’intoccabilità dell’artista geniale, non del piccolo intellettuale che passa da un sistema di ordine a un altro. Infatti solo lui può circondarsi di poeti e anche se il suo nome è iscritto nella lista neri dei sospetti, accusato di diffamare l’ordine, nessuno può arrestarlo. E suona perfino uno strumento a metà tra un sax e una tromba wawa, e qualunque altro piffero e solo lui si serve di fazzoletti candidi.
“È difficile essere un dio” è una pura invenzione di cinema, un turbine che implode sullo schermo dal ritmo inarrestabile, e talvolta ci osserva, come ci guardano i ritratti antichi volendoci trasmettere tremendi segreti, un’opera d’arte che contiene un’infinità di elementi per leggere la storia e volare via con il pensiero, ricordare un certo tipo di cinema realizzato e vietato. Le immagini in bianco e nero si affollano nei piani sequenza mobili, steadycam inarrestabile e successione di efferatezze, di meraviglia compositiva, che ci fanno partecipi in poco tempo di un lungo periodo di cui sono stati diretti testimoni German e i suoi collaboratori che hanno partecipato al film e lo hanno portato a termine dopo la sua morte.
Erano presenti a Roma la moglie Svetlana Karmalita, il figlio Aleksej A. German jr, nome di punta del nuovo cinema russo (“Soldati di carta”), il celebre direttore della fotografia Yuri Klimenko (sua era la fotografia di “La leggenda della fortezza di Suram”) che commenta: «una tecnica piuttosto semplice, niente di complicato, ha semplicemente creato un nuovo modo di mostrare il mondo», l’attore protagonista Leonid Yarmolnik e i produttori che lo hanno accompagnato fin dalle riprese iniziate nel 2000, quando infine fu possibile mettere in cantiere il progetto pensato ai tempi dell’invasione di Praga, tanto beffardo per lo stato, e terminate nel 2006 per proseguire poi con il montaggio. Il film resta un atto di accusa contro ogni potere ottuso e i tanti anni di lavoro occorsi lo dimostrano.
È stato un gruppo di colaboratori sempre uguale, fin dai tempi di “Il mio amico Ivan Lapshin” (tranne quelli che invece presero la via degli Usa, poiché si resero conto che era diventato impossibile continuare a lavorare nella Lenfilm).
«Le riprese richiedevano molta energia, noi ci abbiamo rimesso l’anima, lui il cuore» dice il figlio che aggiunge «Vedevo la fatica con cui era fatto il film, era come vedere un atleta di sollevamento pesi, sentivo gli attacchi esterni che venivano indirizzati a questo lavoro. Lui viveva nel film, era la sua vita. Per me era come vedere Tolstoj che scriveva “Guerra e pace” un uomo posseduto dall’arte del cinema, dall’essenza del cinema». «Pensavo che ci avremmo messo due o tre anni, dice il protagonista Yarmolnik, poi non importava più, ci ha regalato l’eternità del suo film. È lui il custode ultimo del senso del suo film ma si potrebbe riassumere così: è senza senso cambiare la realtà, ma ogni nuova generazione ci prova, è un tema eterno» e ricorda una frase chiave del film: «Quando al potere ci sono i Grigi prima o poi arrivano i Neri».
La parola definitiva è ancora di Aleksej German jr : «Questa opera è importante perché priva di compromessi, una sfida al cinema come esiste adesso, è un film che ha riunito un gruppo di persone che hanno lavorato con coraggio assoluto a dispetto di tutti. L’importante è che la nuova generazione sappia che un cinema privo di compromessi è possibile».
Memorabile questa prima proiezione non ce ne sarà un’altra uguale. Sullo sfondo di un paesaggio plumbeo con solo poche figurine stagliate sullo sfondo, gocciolio di acque e cigolii di legna, ecco apparire due rondini che sfrecciano oblique nel cielo con effetto 3D che avrà sorpreso anche il direttore della fotografia. Non di effetto si trattava, ma di due autentiche rondini entrate chissà come a dispetto della ferrea sorveglianza, salutata come una presenza ideale del regista scomparso.
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