Quasi quattrocento prose la cui dimensione, salvo esigue eccezioni, oscilla da poche pagine a poche righe, compongono l’ultimo libro di Alejandro Jodorowsky, La vita è un racconto (traduzione di Michela Finassi Parolo, Feltrinelli, pp. 286, € 17, 00) tecnicamente una raccolta di racconti brevi e brevissimi. La tentazione, dunque, sarebbe quella di ricondurlo entro le coordinate di un genere letterario molto in auge negli ultimi anni nelle terre sudamericane di cui Jodorowsky è originario, la micro-finzione.

Ben prima che così venisse nominata acquisendo riconoscibilità, ad essa si dedicarono scrittori che si divertivano a mettere alla prova le convenzioni letterarie, come Borges, Cortázar o Augusto Monterroso, l’autore del celeberrimo Il dinosauro: «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì». E in effetti, alcune prose di Jodorowsky sembrano rendere omaggio a questi maestri della brevità, come lascia supporre il microracconto dal titolo Fine: «E quando si svegliò si rese conto che cominciava a sognare».

Eppure, come saprà chi ha familiarità con l’arte eclettica e visionaria del cileno naturalizzato francese – che è stato, dagli anni Sessanta a oggi, oltre che scrittore anche attore, sperimentatore d’avanguardia per il teatro e per il cinema (suoi gli indimenticabili film di culto El topo o La montagna sacra), sceneggiatore di fumetti di fantascienza (leggendario L’Incal, disegnato da Moebius), ideatore di un personalissimo avvicinamento magico e rituale alla psicoanalisi e persino interprete di tarocchi – non è con la cassetta degli attrezzi letterari che bisogna accostarsi agli scritti raccolti in La vita è un racconto.
Jodorowsky, del resto, non si serve degli strumenti consueti del narratore per costruire le sue storie, non è interessato alla bella scrittura fine a sé stessa. Ad affrontarla con la logica, la sua letteratura risulta a tratti persino deludente: a volte ripetitiva (spicca in questo volume la predilezione per gli aneddoti zen e le parabole), ridondantemente allegorica oppure eccessivamente ermetica (o tutt’e due, come nel racconto I Grugenstein); insomma, troppo irregolare. Ma, come più volte lo stesso Jodorowsky ha affermato, la finalità della sua arte è terapeutica e non estetica. L’arte, e perciò anche la letteratura, è per lo psicomago cileno un mezzo per risvegliare la coscienza e avviare quel processo iniziatico che è tra i temi ossessivamente ricorrenti della sua opera.

L’arte fornisce quindi una chiave per aprire le gabbie che l’essere umano si è lasciato erigere intorno dalla cultura, dalla religione e dalla morale: bellissime finzioni anche queste, come spiega nell’intervista che chiude il volume (e come già Borges aveva osservato), che possono pertanto essere confutate e riscritte grazie ad altre narrazioni, cambiando così la realtà. Da ogni storia, allora, può scaturire una sacra epifania o una scintilla spirituale, ma solo se ci si predispone a lasciarsi sedurre da questo tanto affascinante quanto estremo racconto sulla natura trascendente dell’arte e dell’esistente.