È morto a 90 anni per complicanze dopo un intervento chirurgico a Cambridge, in Massachussetts, Aldo Tambellini, artista e cineasta sperimentale, pioniere della «electromedia», unione di poesia, danza, film, proiezione di diapositive (che lui bruciava, dipingeva di nero, graffiava e perforava trasformandole in mondi paralleli all’immagine preconfezionata lì impressa).
Nato a Syracuse, era cresciuto il Italia durante la seconda guerra mondiale e poi era tornato a New York dove aveva completato la sua formazione, mentre negli anni successivi insegnerà al Mit, lavorando intorno al disincanto della comunicazione tecnologica. Negli anni Sessanta è stata una figura di riferimento nell’East Village sia nei teatri underground da lui fondati come il Gate (con la sua compagnia Elsa proiettava lì film sperimentali) e il Black Gate diretto insieme a Otto Piene (in questo loft, con gli spettatori seduti a terra, presentò le performance disturbanti di Yayoi Kusama, ma anche quelle di Nam June Paik e Charlotte Moorman) che in tutti gli ambienti della cultura non allineata. Appassionato cultore del colore nero, da lui considerato «uno stato dell’essere» e anche un pigmento assai «politico», Tambellini è noto soprattutto per la Black Film Series (dove dipingeva direttamente sui fotogrammi) e per le performance denominate Electromedia – «perché molti dei media che utilizzavo si basavano sull’elettricità» – in cui univa pittura, scultura, arte cinetica e happening, Le sue celebri diapositive sempre colorate artigianlmente, a mano, si chiamavano invece «lumagrammi».
Tambellini, estimatore dei «cantori» afroamericani, è stato anche un poeta, acuto osservatore dei fenomeni sociali in atto che stavano mutando il modo di vivere americano.
Nel 2012, la Tate Modern di Londra gli ha dedicato una retrospettiva intitolata Retracing Black, mentre nel 2015 è stato «ospite» del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia.