Ogni qualvolta si legge un saggio su Aldo Rossi ci si chiede più che per altri architetti quale lasciato è rinvenibile nel presente, almeno come sembianza culturale della sua opera se non del suo stile. Perché si deve pur convenire che Rossi, ancora prima di essere un architetto, è stato un intellettuale e ha voluto con ostinazione porre come centrale, a iniziare dagli anni cinquanta, una fase di profonde divisioni e revisioni sull’eredità del Movimento Moderno, la speranza nel progetto quale prassi diffusa e disciplinata per cambiare la società e il mondo, quando altri sondavano strade e possibilità del tutto diverse. Per lui l’architettura, considerata oltre la sua dimensione funzionale, avrebbe dovuto assolvere compiti più vasti delle questioni dell’abitare e del vivere quotidiano. La sua fiducia nel fare architettura, pur di natura diversa dalla tradizione del Moderno, è in fondo la stessa che alimentava l’azione di Ernesto Rogers, il quale, ricordiamo, lo annoverò, da direttore nel primo dopoguerra di «Casabella-Continuità», tra i suoi migliori collaboratori.

È questa la ragione del perché il nichilismo che si affaccia in uno dei disegni più famosi di Rossi, «Ora questo è perduto», può oggi considerarsi solo profetico della deriva scenografica dell’architettura e della deregulation urbanistica che ha reso innocua, omologandola, qualunque riflessione critica sulla città, compresa quella dell’architetto milanese, confusa tra altri radicalismi o peggio imbalsamata quale poetica dei tempi che furono.

Adesso la tenace fede che Rossi rivolse all’architettura, «intrecciata a un fervore tutto mentale e a un intenso immaginario», come scrisse di lui un suo allievo, sembra sopravvivere nell’interesse di una leva di giovani storici.

Ormai terminati gli scontri tra schiere opposte e partigiane, com’è stato quando Rossi era ancora in vita, nuove ricerche cercano di comprendere la sua opera.

Il saggio di Beatrice Lampariello, Aldo Rossi e le forme del razionalismo esaltato Dai progetti scolastici alla “città analoga”, 1950-1973 (Quodlibet, pp. 360, € 34,00) appartiene a questa nuova fase di studi rossiani.

Disperse ormai le energie di chi visse quella stagione, le narrazioni che avuto per oggetto in questi ultimi tempi l’architettura di Rossi hanno oscillato tra la fascinazione della memoria (Diogo Seixas Lopes, Melancholy and Architecture, Park Books, 2016) e la ricostruzione «neutrale», com’è il caso, appunto, del saggio in questione. Questo, anche a costo di riportare fatti di modesto rilievo, dà conto, attraverso una ricognizione capillare dell’archivio rossiano sparso nel mondo (Los Angeles, Montréal, Milano, Roma, Venezia), dei molteplici motivi che hanno reso unico il lavoro dell’architetto lombardo. Il racconto si svolge in ordine cronologico. Descrive gli anni della sua formazione, nei quali la lettura degli scrittori francesi e latini, della critica d’arte e di architettura, si alterna a prove di pittura e di fotografia. Nel 1950, quando Rossi si iscrive al Politecnico (vi esce laureato nel 1959) i suoi interessi preminenti sono ancora letterari e artistici, ma la presa d’atto della crisi dell’architettura moderna, giudicata una «ripetizione banale», lo convince a ricercare un’alternativa coerente e pratica ma soprattutto «realista».

Rossi si muove così per «fondare – come scrive l’autrice – un nuovo linguaggio su basi ideologiche», dove coesistono l’interesse per i moscoviti «edifici giganti» di Stalin e quello per il Neoclassicismo milanese, per gli scritti di Lukács e Gramsci e per quelli di Cattaneo e Porta. Da iscritto al Partito Comunista legge la storia dell’architettura come storia delle classi dominanti alla ricerca delle forme nelle quali rispecchiarsi. Come un acrobata sul filo, ricorderà anni dopo Tafuri, Rossi si muove con abilità nei linguaggi dell’architettura del passato per trovare gli elementi utili a quella del presente: da Loos a Boullée, da Le Corbusier all’Antonelli, da Perret a Schinkel.

Nei capitoli successivi Lampariello affronta gli aspetti teorici della ricerca rossiana, a iniziare dallo studio delle aree periurbane dove non è più possibile riconoscere l’armonia e l’ordine della città storica. Con il progetto per il Centro Direzionale di Torino (1962, con Luca Meda e Gianugo Polesello) condivide la scala della megastruttura quale dimensione ideale per arginare il caos diffuso nel territorio, ma l’urbanistica è una «scienza autonoma» e «l’architettura della città» , come recita il titolo del suo più famoso saggi (Marsilio 1966, Quodlibet 2011), è l’applicazione di regole e princìpi logici com’è stato per Vitruvio, Palladio, fino al Milizia.

Alla città, «scena fissa» dell’esistenza umana, «manufatto costituito da parti e costruito nel tempo», Rossi destina le sue architetture. Poche sono le opere costruite fino al 1973 rispetto ai progetti elaborati per vari concorsi: dalla sistemazione della piazza di Segrate fino alla scuola «San Sabba» di Trieste, passando per le residenze nel quartiere Gallaratese, la scuola di Fagnano Olona e il progetto (non realizzato) di «San Rocco» a Monza (con Giorgio Grassi)

. Nel 1976, con il collage La città analoga per la Biennale di Venezia, sorta di città immaginaria su modello di un quadro di Canaletto, combinazione mnemonica di architetture reali e inventate, Rossi «si spinge sempre più in un universo autobiografico ed emozionale». Questa disposizione, intima e visionaria, proseguirà nella ricca produzione dei decenni successivi e lo portrerà ad affermarsi come ambìto architetto non solo Italia ma anche all’estero e ad essere, suo malgrado, disinvoltamente imitato. I cosiddetti «rossiani» saranno la nostra sventura. Il modello aldorossiano ridotto a bandierine e finestre quadrate, trasformato in manierismo, è una ragione in più per ritornare alla storia delle sue origini.