Non è difficile far aprire ad Aldo Nove il suo «magazzino della memoria» quando la conversazione scivola con leggerezza su temi e argomenti che sembrano intrigarlo. Forse sarà il «bellissimo novembre» preferragostano a creare la giusta sintonia; o forse di più l’emozione di sapere che il suo romanzo più sentito, interiore e autobiografico è stato tradotto in film e che sarà al Festival del Cinema di Venezia. O ancora le pagine dell’analista junghiano Erich Neumann che avidamente stava leggendo in piedi all’angolo di una traversa del commercialissimo e multietnico Corso Buenos Aires. Sta il fatto che La vita oscena, girato da Renato De Maria e sceneggiato con la collaborazione dello stesso scrittore-poeta, è l’occasione di quest’incontro. «Non ho mai pensato che La vita oscena potesse diventare un film. Non mi appartiene il pensare che scrivendo un libro, questo poi possa diventare un film. Non confeziono libri per vestirli cinematograficamente». Il rileggere quest’appunto fa tornare alla mente un unicum nella produzione letteraria di Nove che guarda caso ha a che fare con il cinema. Nel primo numero di Brancaleone della primavera del 2006, quadrimestrale cinematografico animato da forti ambizioni che ebbe vita brevissima, trovò ospitalità uno scritto dal titolo Le parole cambiate: soggetto cinematografico scritto nel 2002 e definito da Nove nella premessa «una sorta di (ingenuo) magazzino della memoria», le parole non solo cambiano ma tornano pure e in cui pare, letto in prospettiva, essere un abbozzo di cosa sarà qualche anno dopo La vita oscena. Dunque, vale la pena prima di riprendere il discorso con Nove trascriverne l’incipit e non è una contraddizione, ma è il movimento di scrittura di Nove che succhia con ingordigia il tempo presente raccontandolo attraverso oggetti che finiscono per saturare anche linguisticamente lo spazio vitale quotidiano: «Andrea è nella sua stanza, è triste. Prima lancia delle freccette contro la foto di classe: il bersaglio è il volto, cerchiato, del suo rivale in amore. Poi racconta ad un suo amico al telefono di aver visto Michela con quell’altro. Andrea sta ascoltando The wall dei Pink Floyd o un analogo disco depressivo del periodo. Beve e delira. Il suo è un monologo sulla nostra esistenza, in cui siamo tutti intrappolati come in un videogioco, poi parlano di punteggi a Space Invaders. Alla fine della telefonata, sempre più ubriaco, Andrea sfascia il disco e esce di casa… ».
La scrittura ricorda molto «La vita oscena»…
Osservando l’alternarsi di poesia/romanzo nella narrazione che dopotutto ha rappresentato il superamento di cose mie interiori.
E lo hai fatto affidando il tuo romanzo a Renato De Maria.
Non conoscevo De Maria, l’ho incontrato casualmente a teatro, recitava Fabrizio Gifuni e subito abbiamo cominciato a parlare, lui dei miei romanzi, aveva letto Woobinda e La vita oscena, io del suo film Paz. Infatti Renato per me era il regista che era riuscito a realizzare, un film per me impossibile, uno dei miei preferiti, l’avrò visto sei, sette volte, ricordo anche le battute. Ero e sono un fan sfegatato di Andrea Pazienza, per questo devo aggiungere che quando seppi che qualcuno s’apprestava a girare un film sulla sua vita, pensai ‘come ci si può mettere a fare un film su Pazienza’. Avevo molti pregiudizi che il film ha spazzato via una volta visto. Renato aveva vinto facile questa sfida che ritenevo difficilissima.
Da sempre il cinema si è appoggiato alla stampella ogni giorno più corta della letteratura (e ci sarebbe non poco da riflettere sui nuovi media che hanno accorciato sensibilmente i caratteri della scrittura suscitando peraltro una reazione nel ritorno alla narrazione lunghissima per chi ha fiato da spendere), e l’elenco degli scrittori prestati al cinema consente quasi di impilare una controstoria del cinema. Come ti sei trovato a dover sceneggiare un film, peraltro tratto da un tuo romanzo, e a lavorare a stretto contatto con un regista che sicuramente aveva la sua idea di come avrebbe girato il film?
Da quell’incontro a teatro siamo diventati amici. Questo ha consentito di poter lavorare in perfetto accordo. Abbiamo riletto il libro al fine di isolare i nuclei poetici da quelli narrativi e preparare la scaletta e il trattamento. Da lì in poi tutto è andato sulle spalle di De Maria. E di Daniele Ciprì che ha curato la fotografia, un altro che per me ha rappresentato molto. Cinico tv l’ho sempre guardato.
Quindi, sei stato sul set? Ne avevi mai frequentati prima?
Ero stato più di dieci anni fa sui set di alcuni film porno internazionali per delle inchieste che stavo scrivendo. Erano i film di Michael Ninn, Latex, Sex. Sulla domanda: sì sono stato sul set del film e ho potuto vedere lo straordinario lavoro di Renato e la grande perizia di Daniele. C’era un bellissimo clima e una rara condivisione d’intenti, vedevo le scene, non c’era nulla che mi turbasse, anzi ognuno di noi aveva bene in mente qual era il proprio ambito di competenza.
Il risultato è un film spettacolare in cui l’impianto narrativo del romanzo è rimasto inalterato, mentre a fornire soluzioni, se non inedite poco battute dal cinema italiano, e commistioni di linguaggio, alto e basso, sono gli ambienti e la scenografia. D’altronde come detto nei tuoi romanzi gli oggetti tendono in elenco a saturare il quotidiano. Tornando al set, ti è venuta voglia di girare un film?

No, e’ una lingua il cinema che non maneggio. Mi trovo bene con le parole. Ammanniti sta girando o ha girato un film. Non lo so di preciso, è molto misterioso.
Sei tornato più volte sulla tua adolescenza, come l’hai vissuta e su ciò che ti è capitato con la scomparsa quasi contemporanea dei tuoi genitori e a dover affrontare la vita da solo, poco più che diciassettenne. Senza scomodare facili cliché teorici cos’è stato affrontare due volte un tema così profondamente personale a distanza di pochi anni. Prima scriverlo e poi vederlo oggi «vivente» al cinema?
È stato tutto molto terapeutico. È stata una sfida umana e letteraria. Sapevo che mi sarebbe aspettata una fatica immane a toccare quella che è stata la mia vita. Ma era anche una sorta di scommessa, di disciplina di scrittura nel trattare dico ora questo materiale che mi riguardava da vicino, mi apparteneva. Non c’erano cose da nascondere. È ‘Il mio cuore messo a nudo’ di Baudelaire; sono le ‘Confessioni’ di Sant’Agostino. Libri che rileggo di continuo. Sant’Agostino quand’era a Milano era un insegnante che oggi diremmo precario. Sono perfettamente conscio che si poteva finire male ed è un modo bizzarro di leggere Baudelaire e Agostino, ma anche Silvia Plath e Anne Sexton. C’è questo scarto pazzesco nel film.
Tutti e due suicide …

…e allo stesso modo con la testa nel forno. Ma anche Pavese, Celan e ancor prima Georg Trakl morì suicida e si parla molto di lui nel film. È il poeta preferito del protagonista.

E Robin Williams…
Mi è dispiaciuto tanto. Nel mio vissuto Williams era ‘nano nano’. Mentre non avevo amato L’attimo fuggente, per diverse ragioni.
Anche lì il giovane protagonista alla fine si suicida, mentre quasi tutti ricordano solo il saluto in piedi sui banchi degli allievi all’insegnante che se ne va.
Non ci avevo pensato.
Cosa pensi degli interpreti del film?
Mi è sempre piaciuta Isabella Ferrari. Per De Maria è stata una scelta consapevole per ovvie ragioni e lei è bravissima, potrei citare tutti i suoi film. Clément Metayer l’avevo visto in Après Mai (Qualcosa nell’aria di Olivier Assayas), ha una storia quasi come la mia. Anche suo padre è morto giovane. Doveva però essere completamente diverso da me. Sul set abbiamo parlato tanto in un inglese stentatissimo, si capiva si e no il 40%, ma per completare i discorsi ci aiutavamo con espressioni e gesti.
Infine, stai raccogliendo consensi per il tuo romanzo su San Francesco «Tutta la luce del mondo», cosa stai scrivendo in questo momento?

Sto scrivendo un monologo per Sabrina Impacciatore, ‘Io, la verità, parlo’, che debutterà a Riccione, durante l’assegnazione del Premio Ilaria Alpi, il 4 settembre prossimo. È tratto da alcune parole sulla verità di Jacques Lacan.