Il quarantennale del sequestro e omicidio di Aldo Moro sembra segnato dalle mancate occasioni di riflessione sulla figura di Moro, sul ruolo di Dc e Pci, sul periodo segnato da crisi economica che segnò l’avvio di una feroce ristrutturazione. Come un treno che si porta le rotaie verso casa, la macchina dei luoghi comuni oscilla fra complottismi di una certa storiografia tipo Flamigni, riscritture agiografiche della storia brigatista per omissioni, cancellazioni e qualche franca bugia, ed esaltazioni del «grande statista» che non fu né grande né statista.

Ricostruzioni concordi nella ripartizione dei rispettivi monopoli: del diritto e della ragione, impugnato dallo Stato che «resiste al terrore»; e dell’opposizione allo stato di cose presenti e della rivolta, che si vorrebbe appaltato alle Br.

Bene ha fatto, dunque, l’editore Cairo a ripubblicare Un affare di Stato (pp. 287, euro 16) di Andrea Colombo, che vi ha aggiunto un capitolo riassuntivo del girare a vuoto della macchina dei sospetti che, nel suo moto perenne, trasforma il presupposto aprioristico «che nulla sia andato come sembrerebbe», nella certa conclusione «dell’esistenza di un aspetto sconosciuto ma tale da modificare la lettura storica»: il permanere del mistero è la prova stessa dell’esistenza del mistero, ciò che fonda la «misteriologia del caso Moro» e al tempo stesso ne deriva.

Misteriologia alla quale non è sfuggita la monumentale ricostruzione di Miguel Gotor, fondata sulla punta di spillo del presupposto che uno degli esiti della sequenza storica – il cosiddetto Memoriale – debba esserne lo scopo che spiega l’intero processo, deducendo quindi la struttura delle Br dall’ipotetico identikit intellettuale del presunto inquisitore di Moro, al tempo stesso «soggetto collettivo dai multiformi e imprevedibili contatti», e «docente di livello universitario» con «appropriate conoscenze della politica italiana in tutti i suoi risvolti».

Non avendo l’ambizione di proporsi come intellettuale di riferimento né consigliere del Principe, Andrea Colombo aveva già fatto giustizia di questa macchina ex ante, con un esercizio di ricostruzione empirica che ha il pregio di misurare ogni passo non solo sull’evidenza che giustifica ciò che si può dire, ma anche sulla consapevolezza che ciò che «non si può dire» è spesso il prodotto di una costruzione: un’astrazione determinata tutt’altro che neutra.

Esemplare è la ricostruzione dell’agguato di via Fani, dove non ci fu quella «geometrica potenza» la cui evocazione infiniti addusse lutti a un movimento già in crisi profonda: dietro la percezione di una macchina infallibile, c’erano mitra vecchi e malmessi che si incepparono, decine di colpi andati a vuoto, bersagli mal scelti. L’agguato andò a buon fine solo per le manchevolezze di quella scorta che Moro definisce, con sbrigativo cinismo, «per ragioni amministrative del tutto al di sotto delle esigenze della situazione». Questo cenno ha fornito il la per la tesi che queste parole non fossero «moralmente a lui ascrivibili». E invece lo erano: durante il suo intervento dell’11 marzo 1977 sul «caso Lockeed» – quello del «noi non ci faremo processare» – Moro non sentì il bisogno morale di spendere una sola parola per i 44 avieri morti nello schianto di un aereo Lockeed nei giorni del dibattito.

Il fatto è che nominare la scorta non era una mossa opportuna, nell’aprire e condurre una trattativa. Perché – è il cuore del libro di Colombo – a via Fani segue una lunga trattativa, della quale possono non essere noti aspetti e ruoli, ma il cui senso è del tutto evidente: alle Br che chiedevano dapprima la liberazione dei prigionieri politici, e che alla fine si sarebbero accontentati di un gesto anche formale, la Dc risponde con l’intransigente rifiuto di un riconoscimento politico delle Br; salvo percorrere fino in fondo la strada del pagamento di un cospicuo riscatto (col quale le Br avrebbero potuto finanziare la propria azione armata per anni). Strada alla quale il Pci, intransigente sul riconoscimento politico – che avrebbe significato ammettere l’esistenza di un’opposizione a sinistra –, diede via libera con togliattiana doppiezza: «fatelo, ma non ditecelo» (Pecchioli).

È nel corso di questa trattativa che Moro, per dirla con Sciascia, tentando «di dire col linguaggio del nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire», diventa «maschera nuda»: come un personaggio pirandelliano si scioglie dalla forma «perché tragicamente è entrato nella vita».

Se non che, mentre Moro passa dalla forma alla vita, la strategia di depotenziamento della sua figura lo riconfigura come personaggio – il Moro politicamente ormai morto, al quale i suoi amici di partito oppongono un muro di silenzio mentre, «decidendo di non decidere», decidono di fatto per la sua morte. Rispetto a questo movimento, le Br dimostrano la loro inettitudine politica: incapaci di comprendere dinamiche e linguaggi dell’autonomia del politico, dunque incapaci di insinuarsi nelle crepe del «partito della fermezza», finiscono per essere speculari a quello Stato cui si contrapponevano. Sono due stalinismi: quello che «uccide senza processo i servitori del Sim e con processo i dirigenti», e quello «subdolo e sottile che sulle persone e sui fatti opera come sui palinsesti: raschiando quel che prima vi si leggeva e riscrivendolo per come al momento serve».

A questa considerazione di Sciascia, si potrebbe aggiungere che anche Moro concepiva nell’assorbimento all’interno dello Stato, attraverso l’inevitabile mediazione politica, il destino delle spinte sociali: se c’è un tratto che accomuna Moro, il Pci e le Br, è l’inestirpabile diffidenza verso la capacità produttiva e di autogoverno dell’essere sociale e i processi di soggettivazione delle moltitudini. Assieme all’incomprensione dei processi di trasformazione in corso: le letture diversamente continuistiche, fondate sulla mitologia di un ceto operaio (o popolare), non coglievano i mutamenti del tessuto produttivo in risposta a un quindicennio di lotte.

La monolitica lettura Br dello Stato Imperialista delle Multinazionali è l’esito coerente dell’appartenenza «a un assetto sociale e a una cultura politica fondati sulla centralità del lavoro»: in questo le Br avevano molto più in comune col Pci, che con quel movimento col quale interagirono pochissimo, senza comprenderne alcunché. Da qui, in breve tempo, l’imbarbarimento dei boia delle carceri, la sostituzione della dialettica col laccetto, il divenire-Caino. Specularmente, i dirigenti democristiani che avevano sacrificato Moro in nome di un’astratta fermezza venata di cinismo non esiteranno a regalare alla camorra la ricostruzione post-terremoto per salvare Ciro Cirillo. L’apparente continuità della Prima Repubblica celava «una oligarchia sempre più priva di rapporto dialettico con la società reale, svincolata da ogni controllo da parte dei rappresentanti e di conseguenza sempre più corrotta».

Poche ore prima dell’assassinio di Aldo Moro, a Cinisi veniva assassinato Peppino Impastato: «dalla mafia democristiana», è scritto sulla sua lapide. La stessa espressione che compare nel comunicato brigatista n. 3, ma con un significato radicalmente diverso: dove per le Br «mafia» era un’attitudine, o un mero epiteto, per Peppino Impastato «democristiana» era un attributo che definiva e caratterizzava il soggetto. Molto di quello che è accaduto a partire da quel 9 maggio cade all’interno di questa differenza: come sempre, le parole sono conseguenza delle cose.