Dopo la fine della «repubblica dei partiti», studiare la storia politica del secondo dopoguerra significa confrontarsi con una bibliografia ormai molto ricca e impone di riflettere sulle base delle nuove acquisizioni documentarie. Da entrambi i punti di vista, l’ultimo libro di Giovanni Mario Ceci (Moro e il Pci, Carocci, pp. 192, euro 20) si può considerare una ricerca felicemente riuscita. Al centro della ricostruzione, forte di una solida inchiesta su fonti internazionali, è la seconda metà degli anni Sessanta nel pieno della crisi del centro-sinistra. A lungo ci si è concentrati su questo delicato passaggio storico mettendo in luce come l’inizio della crisi dei partiti si leghi all’incapacità dei gruppi dirigenti di interpretare la trasformazione economica, sociale e culturale del periodo.

Aldo Moro – spiega Ceci – non faceva parte di questa schiera. In quest’ottica si deve leggere anche la sua relazione con il Pci : accantonando la mitologia del «compromesso storico» e individuando i passaggi di un percorso tutt’altro che lineare. Ancora nel giugno 1967 Moro era presentato in un memorandum del Dipartimento di Stato statunitense come un «dichiarato anticomunista». Circa due anni dopo, Henry Kissinger comunica al presidente Nixon il pericolo di un ingresso del Pci nell’area di governo. Cosa era successo in quel breve lasso di tempo? Le risposte ovviamente sono tante e non tutte vengono investigate in questo lavoro: si pensi, per esempio, agli effetti del Concilio Vaticano II, tali da spingere Kissinger a parlare, sebbene «con prudenza», di una caduta del fronte anti-comunista sostenuto dalla Chiesa. Certamente, un ruolo decisivo lo aveva avuto la decisione di Moro di lanciare la sua «strategia dell’attenzione» verso il Pci. Di questa iniziativa il volume segue gli sviluppi fin dall’origine (il «discorso-bomba» del novembre 1968) e con lo sguardo attento agli eventi che avevano spinto in questa direzione: la crisi riformistica del centro-sinistra e lo scoppio della contestazione studentesca. La disamina della posizione assunta da Moro nei confronti del ’68 rappresenta uno dei punti di maggiore interesse.

In un contesto politico in cui i grandi partiti sarebbero stati presto travolti dall’urto delle piazze la sua figura si distingue per la capacità di «cogliere la rilevanza (e la novità) della protesta e di interrogarsi su di essa». A differenza di chi nella Dc denuncia violenza del movimento, Moro preferisce enfatizzare i nuovi valori della generazione del baby boom avvertendo la profonda insufficienza della politica democristiana in una società che sembra spostarsi a sinistra.

Sono queste le premesse di quella strana formula dell’attenzione ai comunisti che non deve essere confusa con l’apertura della «stanza dei bottoni», ma che punta ad allargare le basi popolari del consenso allo Stato e ad ottenere una collaborazione organica con l’opposizione. Centrale è per Moro anche il valore della «pregiudiziale antifascista» che impone di tenere unito il fronte delle forze democratiche contro il rischio di un’uscita a destra dalla crisi del sistema. Dopo lo scoppio della polemica attorno al «Piano Solo», i fatti del 12 dicembre 1969 confermeranno la decisione di convogliare le energie nella difesa della fragile democrazia italiana. Che poi dietro alla bomba di Piazza Fontana ci fossero anche gli sviluppi della politica dell’attenzione, Ceci lo lascia intuire quando analizza gli esiti del XII Congresso del Pci con l’emergere delle prime affinità tra Moro e Berlinguer: una convergenza di fronte alla quale – confessa l’ambasciatore statunitense Ackley – «le leve politiche nelle nostre mani non sono né lunghe né abbondanti». Di fatto, l’avvio della «strategia della tensione» comporterà l’inceppamento del confronto programmatico con il Pci: «un ripiegamento tattico» (e condiviso da entrambe le parti) «di fronte al rischio di una situazione potenzialmente incontrollabile», spiega Berlinguer in Direzione. Bisognerà attendere le elezioni del 1975 per un rilancio del dialogo, ma questa volta in un quadro politico lacerato dalla crisi economica e dal terrorismo. Il percorso verso la «terza fase», quella del coinvolgimento effettivo del Pci nel governo, risulta quindi tutt’altro che teleologico e molto più lungo e accidentato di quanto si tende a pensare, talvolta, anche tra gli storici, cercando una scorciatoia in categorie come «consociativismo» e «trasformismo».

In una ricostruzione che avrebbe meritato forse un maggiore allargamento della prospettiva alle dinamiche del periodo (la secolarizzazione, la disgregazione delle reti politiche, ecc), Ceci ci restituisce la complessità della politica Moro, interprete del proprio tempo e, nello stesso tempo, tattico e stratega. Dallo studio dell’interlocuzione con il Pci, è possibile seguire la genesi e lo sviluppo di una proposta politica che nel suo fallimento ha segnato la storia d’Italia.