Per Aldo Bonomi, autore anche del libro Il capitalismo in-finito (Einaudi) e membro del comitato scientifico della fondazione Rete Italia presieduta da Giuseppe De Rita, la manifestazione dei 60 mila piccoli imprenditori ieri a piazza del Popolo è «simbolica come la marcia dei 40 mila nel 1980 a Mirafiori, del resto evocata di recente da Confindustria in una marcia virtuale delle imprese sempre a Torino».

I simboli si prestano a diverse interpretazioni. Cosa, di preciso, ha significato la manifestazione di ieri?

Se quella del 1980 dimostrò la crisi del fordismo, quella di ieri ha mostrato le contraddizioni del postfordismo. Sono due fatti da prendere in considerazione come fenomenologie sociali anche perché mi rendo conto che la lettura più semplice, ma errata, è che ci troviamo di fronte a forme di poujadismo perché in piazza c’erano commercianti, quelli che la sinistra definisce i salumieri proudhoniani, artigiani e piccoli imprenditori.


E invece davanti a cosa ci troviamo?

In Italia stiamo assistendo a un conflitto che viene più dai campi che dalle officine, dalla grande fabbrica dove siamo stati abituati a vedere il conflitto organizzato da Landini. Si tratta di un conflitto carsico. Nei forconi si manifesta nel rancore ed è a geometria variabile, si basa sul territorio, sulle autostrade, i rondò. I piccoli imprenditori rappresentano un conflitto fatto da persone che per tradizione, storia e ruolo sociale sono miti.

Si direbbe che mobilitano ben altre masse.

Infatti, Rete imprese italia, l’associazione che ha organizzato la manifestazione, è composta da Confcommercio, Confesercenti, Confartigianato, Cna e Casa artigiani. Da struttura di rappresentanza che, ai tempi del collateralismo, era la cinghia di trasmissione dei partiti tradizionali, questa rete fatta di ex operai che si sono fatti imprenditori, dal commercio minuto, dai capitalisti personali è diventata protagonista della «cetomedizzazione» italiana. Era il tempo in cui Togliatti su Rinascita scriveva che la sinistra doveva afferrare Proteo, cioè confrontarsi con il mercato. Cosa che avvenne perché queste sigle sono cresciute in rapporto anche con i partiti della Prima Repubblica: Dc, Pci e socialisti. Dopo la stagione del berlusconismo e del leghismo, oggi vige il disincanto con punte di grillismo. I 60 mila in piazza si sono stretti attorno all’unica cosa che gli è rimasta: le rappresentanze di categoria.

Oggi cosa rappresentano?

Rete imprese italia è una sigla che ha registrato i mutamenti profondi del tessuto della rappresentanza nella piccola impresa. Per la prima volta soggetti diversi sono andati in piazza insieme. Direi che quella in atto è una transizione. Non l’unica, basti pensare ai tentativi di unificazione tra le due centrali cooperative, quella rossa e quella bianca. Sono processi complessi che avvengono nella crisi della società di mezzo. Oggi che è saltato il collaterialismo, per questi soggetti il problema è contare di più, trovare spazio tra Confindustria e i sindacati. Infine hanno acquisito visibilità, e la manifestazione di ieri lo conferma. Si sono dotati di un portavoce e insieme alle altre associazioni d’impresa e l’Abi hanno già pubblicato su Il Sole 24 ore il famoso appello «Fate presto!».

Non si può dire che sia stato ascoltato. Cosa ha portato questi rappresentanti a dire che oggi in Italia la «pace sociale è a rischio»?

Preferisco vedere 60 mila persone che urlano il loro disagio esprimendo un conflitto verso il potere, piuttosto che raccontare ogni volta il conflitto che viene rivolto contro se stessi come forma estrerma di perdita di senso. Nell’ultimo periodo ci sono stati 150 imprenditori suicidi. I governi che si sono alternati negli ultimi anni hanno tirato fino in fondo l’elastico della negoziazione e della concertazione. La manifestazioni di ieri è il risultato di questo. Invece di rinchiudersi in un palazzetto dello sport con i loro associati, le rappresentanze sono andate in piazza. Non hanno invitato il presidente del Consiglio, anche perché a Palazzo Chigi oggi non c’è nessuno. E così un leader che non può essere considerato da piazza come Carlo Sangalli ha incontrato fisicamente il suo popolo, chiedendo la riduzione del peso fiscale.

Dal collateralismo alla politica, le associazioni imprenditoriali scelgono così la strada del movimentismo?

Potrebbe essere uno degli effetti della crisi politica ed è una scelta quasi obbligata da una crisi vera. 150 mila imprese che hanno chiuso dall’inizio della crisi, moltiplicate per tre addetti più un familiare, fa un totale di 600 mila soggetti senza lavoro o in difficoltà. Non è un numero da poco e ho tenuto le stime molto basse. Il conflitto non emerge solo nella piccola impresa. Sergio Bologna lo ha visto nel Quinto Stato del lavoro autonomo, tu e Giuseppe Allegri nel precariato e nella proletarizzazione dei ceti medi. Io ho incrociato questo processo nelle metamorfosi del capitalismo molecolare di cui gli artigiani e gli imprenditori in piazza sono l’incarnazione. In questo mondo ho registrato una crisi del dispositivo tradizionale basato sulla comunità, campanile e capannone, con in più il Dna ricombinante della famiglia che faceva impresa. Il legame comunitario tra imprenditore e operaio non ha retto davanti alla crisi interna e a quella internazionale.
Quanto, e in che modo, queste categorie rappresentano i loro associati?
Anche in questi settori c’è una crisi di rappresentanza. Rispetto alle nuove imprese che non si ritrovano in confcommercio e per questo ricorrono al mutualismo e all’auto-organizzazione. Rispetto ai «ritornanti», i giovani che tornano a praticare l’agricoltura o fanno commercio equo e solidale. La manifestazione di ieri è stata convocata perchè le organizzazioni si sono rese conto che non possono lasciare rappresentare il disagio ai vari forconi. È come il sindacato sottoposto alla concorrenza dei Cub. Sangalli e gli altri dirigenti saranno costretti a autoriformarsi perchè è in atto un cambiamento della stessa forma della rappresentanza. Bisogna ricostruire la società di mezzo, alla luce del mutamento della composizione sociale e delle culture di riferimento nell’impresa e nel lavoro. Lo si potrà fare solo mettendo fine all’austerità e creando nuove coalizioni tra cultura terziaria e territoriale.