Viaggi ultraterreni, dure sentenze, zuffe fra demonî: non solo Dante, non solo la Commedia, ma una florida tradizione popolare e un’enclave mistico-escatologica con finalità decisamente morali che tenta di portare alla luce il così sarà della parusia. Si parla della «linea lombarda» duecentesca, ossia di Bonvesin da la Riva, Uguccione da Lodi, Pietro da Barsegapè e il veneto Giacomino da Verona, restituiti nella traduzione d’autore di Maurizio Cucchi, Giorgio Prestinoni, Fabrizio Bernini e Mary Barbara Tolusso all’interno del volume Visioni dell’aldilà prima di Dante, a cura dello stesso Cucchi («Lo Specchio» Mondadori, pp. 267, € 22,00). Influenzati dalla rivelazione giovannea, «pionieri dell’aldilà» – secondo Cesare Segre –, i poeti didattici del XIII secolo, con la loro koinè tipica, sono in prima linea nella fioritura letteraria in volgare assieme alla scuola siciliana, ai laudisti, ai guittoniani, come ricorda Marco Santagata nella premessa al testo.

Bonvesin fu maestro di grammatica, benefattore – finanziò ospedali e scuole private –, mariano di ferro tanto da scrivere le Laudes de Virgine Maria e un contrasto tra la «regina» e il diavolo. Cucchi sceglie il Libro delle tre scritture considerato con buone probabilità uno dei diretti antecedenti della Commedia. La scrittura nera racconta l’inferno e le sue «dodici pene», mentre la rossa è impegnata nella descrizione della «passion divina», la morte di Cristo. La dorata si occupa della «corte divina», vergando in anticipo su Dante il linguaggio dell’indicibile. L’ultimo spezzone del poema testimonia, infatti, la vocazione della letteratura italiana di raggiungere ab origine le vette del non detto, dell’afasia, della «mirabile visione» dinanzi alla quale, come insegna Guinizzelli, il verso poetico non può che ammettere la sua essenziale inefficacia. Due sono le spie dell’ineffabile in Bonvesin: l’iterazione insistente della parola «dolzor», dolcezza beatifica, come sola qualità intellegibile di una presenza ulteriore; la luce di Dio che appunto «cuintar no se porria», non si può raccontare. Gli autori volgari italiani intendono la poesia nel suo esito più nobile: altezza di linguaggio, discrimen irrinunciabile che spinge il vedere oltre il suo limite, nella bellezza mistica del simbolo dietro al sensibile corporeo, nella spiritualizzazione del reale e del tratto soverchiante dell’amore.

Con la Babilonia infernale e la Gerusalemme celeste Giacomino si affida a quella che Piera Tomasoni ha definito la «concretezza dell’ispirazione», contornata di espressioni formulari, del repertorio dei padri predicatori, degli exempla, della favolistica d’Oltralpe e, sul versante retorico, dell’uso dell’amplificatio per incrementum, grazie alla quale si accumulano gli effetti al fine di meravigliare il lettore. Le quartine monorime di alessandrini sono organizzate secondo particolari molto vivaci che conferiscono compattezza al testo e ricordano la plasticità di alcune immagini dantesche («Restando in quel tormento, gli sopravviene un cuoco, / Belzebù fa di nome, tra i peggiori del luogo, / lo mette a rosolare come un bel porco al fuoco, / per cucinarlo in fretta lo infila in uno spiedo»). E, tramite una «parentela illusoria» additata da Santagata, persino montaliane: il prigioniero della Bufera che, a seguito di «girarrosti veri o supposti», sarà «farcitore o farcito» al «festino» finale.

Del gusto di allitterazioni e dittologie sinonimiche è pervaso, invece, il Liber di Uguccione, teso all’ammonimento e alla conseguente resipiscenza in un terreno, però, eterodosso: impegnato a confutare la teoria della predestinazione, il poema lascia echeggiare la voce degli eretici catari. Pietro stigmatizza, infine, la ricerca del piacere come una colpa che ricade infallibilmente sull’uomo. Il «fanton» di Barsegapè, fustigatore del vizio, esorta il popolo a non cadere «nella più dura passione / dove non c’è redenzione».

L’ammirevole lavoro di Cucchi e degli altri poeti chiamati a tradurre i lontani maestri è simile a quello degli spin doctors: ricreare, promuovere, valorizzare lo spirito e la consistenza etica di un’esperienza letteraria che ebbe come thunderbolt l’ardore e, si può aggiungere, la sofferenza per la verità, sì da eleggerla a principio dell’esistere. Ma riportare alla coscienza del lettore moderno l’imagery dei poeti duecenteschi significa anche incoraggiare una certa concezione della donna – così messa a rischio negli ultimi tempi –, vuol dire cioè tornare a conferire centralità all’eterno femminino nella sua sfera più ampia, al di là di ogni oggettivismo e riduzionismo che lede la dignità e il senso delle relazioni umane, nel quadro composito dell’amor cortese e ancor di più nello stacco verticale operato dall’angelismo guinizzelliano (di qui la grande innovazione dello Stilnovo) e dalla visione insuperabile fornita da Dante.