Il «governo del popolo» è ritenuto oggi il più fecondo lascito della Grecia classica. L’immagine corrente della democrazia antica, però, è carica di stereotipi: tra i più evidenti, l’incerta definizione cronologica. Quando furono democratici gli ateniesi antichi, e per quanto? Qualunque orizzonte si adotti, in ogni caso resta compreso il trentennio della guerra contro Sparta (431-404 a.C.), e l’intensa e movimentata vita pubblica di Alcibiade (450-404 a.C.). Figura divisiva di un aristocratico, che si fece però «democratico» radicale, e di un comandante che agì da patriota, ma fu accusato di essere un traditore, Alcibiade rappresenta le contraddizioni della vicenda democratica ateniese. Lo si comprende già dalla tradizione antica: quanto speciale è l’immagine che di lui conservano i lettori dei dialoghi di Platone, in particolare del Simposio! Il memorabile ingresso in casa di Agatone e poi l’elogio di Socrate mantengono una grande suggestione: a correggerne l’effetto, forse distorsivo rispetto al «vero» Alcibiade, è utile a una pagina di Senofonte. Il quale notò che Alcibiade veniva dalla scuola di Socrate, donde uscì però anche il capo dei Trenta tiranni, Crizia, e che, per effetto di gigantesca ambizione, «nessuno più di loro recò male alla città». Giudizio parziale, ma assai utile.
Guardando a una vita con esiti distruttivi per l’interessato e per la città, un secolo fa Aldo Ferrabino definì Alcibiade «segno di odio e di ammirazione, reputato rovina di Atene, e insieme atteso salvatore», descrivendone la luce «tanto fatua quanto brillante». Un vero ritratto «paradossale», questo, che riunisce le contrapposte qualità di una figura segnata dalla «istantaneità della passione vanitosa». Ragionando su Alcibiade (e Crizia) Gaetano De Sanctis attribuì ai due allievi di Socrate la «fredda e lucida risolutezza», propria «di chi si è creato, ma senza darle un fondamento etico, una personalità franca da vincoli civici». Ma se Crizia era, coerente, nel mondo dell’aristocrazia filospartana, appartato dalla fiumana democratica, la personalità di Alcibiade era più difficile: perché complica l’idea che si possa leggere la vicenda ateniese in chiave «bipartitica», tra nobili e popolo, e interpretare la storia greca del quinto secolo come confronto tra due blocchi contrapposti (Atene e Sparta). Il quadro era assai più fluido e complesso: nelle condizioni indotte dalla lunga guerra contro Sparta, Atene non fu in grado né di reggere l’anomalia che Alcibiade costituiva, né poté del tutto rinunciare alla sua spregiudicata abilità. Ne risultò una sconcertante alternanza di ascese e cadute: durante il conflitto, Alcibiade fu in fasi diverse vicino alla patria, al nemico spartano, e anche alla Persia, divenuta elemento decisivo nel conflitto tra greci. Alle prese con un satrapo più spregiudicato di lui, Alcibiade fallì nel suo gioco pericoloso: e un agguato sul suolo dell’attuale Turchia fu l’atto finale della sua parabola.
Meritamente Aristotele, in una famosa pagina della Poetica, esemplificò l’essenza della storia (e ciò che la differenzia dalla poesia) in «ciò che Alcibiade fece o subì». Bene ha fatto perciò Cinzia Bearzot, affrontando la sfuggente figura di questo grande ateniese in un saggio denso e rigoroso, punto di arrivo e sintesi di ricerche particolari (Alcibiade, Salerno Editrice «Profili», pp. 334, € 23,00). Nel sottotitolo, si inquadra il protagonista, nell’ordine, come Stratega, politico, avventuriero: perché sono davvero tanti i volti del personaggio. Non vi è spazio, in questa biografia, per elogi o biasimi, per le illusioni del racconto inventivo o le fantasie psicologistiche: abbondano le dettagliate analisi e la solida critica delle fonti. Come ci aspettava, un tempo, in un libro di storia (e non di fiction). Limitato pure lo spazio del «senno di poi», che valuti cioè l’ondivaga carriera di Alcibiade in base agli esiti finali (ignoti agli attori). A cominciare dalla guerra con Sparta, che i moderni sanno perdente per gli ateniesi, ma che in più momenti essi furono «vicini a vincere»: l’evocazione di uno scenario aperto e impregiudicato, senza giungere al controfattuale, risulta assai utile.
In più punti il discorso si allarga, discutendo anche eventi nei quali Alcibiade non ebbe centrale rilievo, ma importanti per capire quelli in cui fu protagonista. E poiché l’interpretazione dipende largamente da fonti letterarie, e tutti i testi antichi sono presentati in traduzione, viene posta grande attenzione al lessico originale (traslitterato). La cura nell’analisi delle fonti è notevole, e del tutto convincente nel caso degli storici, per esempio Tucidide.
Importante, per il quinto secolo ateniese, è poi il teatro ateniese: se la commedia mostra il riflesso della politica cittadina, aperta a differenti letture appare la tragedia. Che, nel Filottete di Sofocle, il protagonista abbandonato a Lemno alluda ad Alcibiade esule dalla patria, è idea al contempo suggestiva e non dimostrabile. Certo, la sua alterna vicenda, con velocissimi passaggi dal successo politico allo scandalo, dalla massima potenza alla fuga e all’esilio, dal ritorno attesissimo alla finale rovina, rientra nella qualifica di «avventuriero»; ma anche evidenzia la precarietà di consenso di cui godettero i leader ateniesi del tempo (compreso Pericle). Fenomeno non sorprendente: anche in certi paesi odierni si passa in breve dall’adorazione al crucifige dei capi politici, invocati come salvatori, presto innalzati, adulati con ostentazione, quindi con rabbia vilipesi, ma poi, talora, rimpianti. Nel caso di Alcibiade, tale drammatica oscillazione dipese da elementi diversi: la sua irriducibilità alle «regole» della democrazia, che egli adoperò a proprio vantaggio, e la «nevrosi» di un popolo sospettoso sempre del tradimento. In fondo, l’Atene democratica era una città, come diceva Voltaire, dove conciapelle, ciabattini e sarti applaudivano le buffonerie di Aristofane, e poi perseguivano cittadini «speciali» come Alcibiade o Socrate. Vista così, non lo si direbbe un modello perseguibile.
Né stupisce, a questo punto, che Alcibiade, frustrato e scalzato dal potere, per intrighi e impazienza, si accostasse ai nemici del governo popolare, e addirittura agli spartani. Per evitare d’essere condannato, in conseguenza di uno scandalo oscuro nel quale era rimasto coinvolto, egli lasciò improvvisamente il comando ateniese, al tempo della spedizione in Sicilia, da lui voluta. Nell’esilio, fornì agli avversari importanti elementi di informazione, cercando anche, si dice, di adattarsi al sobrio stile di vita spartano, opposto al proprio. Non era, chiarisce Bearzot, trasformismo. Così, in una pagina qui valorizzata (Tucidide, 6. 92), Alcibiade spiegò le proprie scelte: «i nemici peggiori non sono quelli che, come voi, danneggiano i nemici, ma quelli che costringono gli amici a divenire nemici». Le fratture della comunità cittadina, in ogni tempo, spezzano anche i concetti fondanti, amico e nemico, patria e lealtà: e così quelle parole, scritte da Tucidide per sempre, spiegano scenari lontani nel tempo. Per esempio, l’Italia del 1943-’45…