Sull’importanza morale, civile ma anche politica di Primo Levi, molto si è scritto e altro ancora si aggiungerà nei tempi a venire. Per più aspetti, la sua figura abita e accompagna, attraversandolo con acribia quasi filologica, l’intero Novecento. Di cui è il testimone per eccellenza. Insieme a pochi altri protagonisti, come ad esempio Vasilij Grossman e Viktor Klemperer. Già diversa sarebbe la comparazione con un suo interlocutore critico quale Elie Wiesel.

L’INTERA SUA VITA, peraltro non riconducibile a un unico paradigma, si è comunque consumata all’ombra del crimine del secolo, di cui non è solo un sopravvissuto ma anche e soprattutto un esploratore. La sua irrisolta vivacità intellettuale, coniugata a un’irrituale autoriflessività, lo hanno quindi portato a confrontarsi, in un corpo a corpo che ha preso la forma della scrittura, con la radicalità delle esperienze estreme, cercando in esse la medietà dell’esistenza di ogni giorno. Per questo i suoi lavori sull’universo concentrazionario superano i limiti della stessa esperienza diretta, individuale, per diventare canoni letterari ed espressivi sul come si dà voce collettiva a ciò che altrimenti rischia di rimanere inesprimibile.
Così facendo, per Levi è la vita medesima a interrogarci, nella sua radicalità, sulle sue radici più profonde. Anche per questo egli rimane essenzialmente uno scrittore, essendo all’eterna ricerca della parola giusta per restituire al lettore, in forma tanto levigata quanto verace, il senso delle domande sull’esistere e sul relazionarsi con il mondo circostante. Levi, infatti, fa parlare i suoi lettori per sua interposta persona.

L’EQUILIBRIO della sua scrittura non è solo un tratto stilistico encomiabile ma il risultato di una chimica letteraria che mette in azione le molecole dell’esistenza. Alcuni aspetti peculiari vanno quindi ricordati. Tra di essi vi è il rapporto con la fisicità e la materialità dei luoghi. Fondamentali sono la Torino borghese ma anche operaia e umbertina, dalla quale prende le mosse. La passione alpinistica che mai lo abbandonerà, è la metafora, al medesimo tempo, del limite e della libertà. Il confrontarsi con i luoghi, il verificarne le asperità, sono due esigenze che richiamano il bisogno della padronanza del proprio destino.
In Levi non c’è il gusto del rischio fine a sé ma la fatica fisica e intellettuale come atto di costante autopercezione morale e realizzazione emotiva. Il fuoco di questo sentire è la sua ricerca di equilibrio personale nell’alterità e nel pudore. La chimica, disciplina nella quale si laurea nel 1941, se sarà poi ciò che lo salverà da morte altrimenti certa, rimarrà anche l’intelaiatura della sua costruzione letteraria.

NEL «SISTEMA PERIODICO» le parole si combinano alle sfumature, ai cambiamenti di stato, alla poliedricità e alle infinite combinazioni degli elementi. Letteratura e chimica sono quindi discorsi comuni sulle concatenazioni ma anche sulla sobrietà, sulla parola priva di inutili orpelli, tanto asciutta quanto essenziale. Sono entrambe esercizi empirici sul rapporto tra simile e dissimile, che spingono a cogliere, nelle sfumature e nella variabilità, gli elementi delle combinazioni, sia naturali che sociali. Se scrivere e lavorare hanno in Levi anche una connotazione alchimistica (sono cioè due dimensioni demiurgiche, dove si genera la vita attraverso l’eterna intercambiabilità degli elementi), il mestiere, inteso come fatica all’opera, quindi anche spazio esistenziale personale, è ingegno soggettivo e spazio esistenziale per eccellenza. Oltre che del Lager, infatti, Levi è il narratore del lavoro come creazione.

IL LEGAME TRA CHIMICA e scrittura non è quindi mai casuale ma prodotto di una concezione materialistica che privilegia il flusso alla materia stessa, entrando nel campo dell’impurità intesa come condizione aperta alla contaminazione e allo scambio. Se questo è un uomo, indagine costruita secondo un circuito espressivo al contempo logico e problematizzante, è una riflessione su alcune categorie ricorrenti dell’esistenza, tra le quali la deprivazione, la monotonia, la casualità, la corporeità, i bisogni elementari, le relazioni interpersonali. Anche per queste ragioni il rimando a Dante è ciò che spezza l’altrimenti inesorabile sopraffazione di quella guerra ininterrotta contro la vita che è la dialettica tra schiavo e padrone. Della quale il Lager, come dimensione atemporale, in quanto presente continuo, ha costituito la forma più efferata ma anche quella maggiormente laboratoriale. Dante è la guida, colui che ha saputo attraversare l’inferno senza abdicare al suo bisogno di curiosare e di almanaccare enciclopedicamente, ovvero indagare sul comportamento umano per costruire una propria etica fondata sul riscontro delle circostanze. La produzione letteraria di Levi è quindi circolare: parte dal resoconto documentario – non privo di echi narrativi – diventa sforzo di narrazione pura, ossia costruzione di fantasia però sempre sull’orlo della verosimiglianza, per poi tornare al documento (come nei Sommersi e i salvati).

IL SUO TESTIMONIARE, come strategia di sopravvivenza, come manifestazione di angoscia ma anche come diritto conquistato, si rifletterà infine nei lavori ispirati alla fantascienza, intesa come dimensione cultura su basi etiche e antropologiche ma non tecnologiche. Un «fantabiologo», come ebbe a definirlo Italo Calvino, che ci ha restituito il senso della dura oggettività dell’esistere.