C’è un bambino a pois che sorride all’obiettivo. Cavalca un pony in riva al mare. I pallini che costellano la sua immagine sono segni del tempo, accidenti atmosferici che si sono depositati sulla carta di quella stampa a colori che piano piano sbiadisce. Sono una specie di segnaletica del ricordo e lo proteggono dalle intemperie dell’oblio. Poi, vediamo alcune donne eleganti (una ha anche una pelliccia ed è ben truccata) camminare in strada. Sfoggiano un look spigliato e moderno, anche nella capigliatura. Fronteggiano il fotografo per un ritratto «preso dal vero» e presto invieranno quella dimostrazione ineccepibile di status quotidiano acquisito ai loro parenti rimasti in Italia. Sono le mogli degli emigrati in America e per contrastare la malinconia di ciò che si è lasciati alle spalle, la felicità della nuova condizione è d’obbligo, qualsiasi cosa sia accaduto prima o accadrà dopo quello scatto.

A volte, nei gruppi di famiglia «esposti», le persone rispondono a numeri che le catalogano, in ordine di apparizione. È un modo come un altro per conoscersi: un numero corrisponde a un nome, magari di nipoti mai conosciuti dall’altra parte dell’oceano. E poi, scorre l’Italia dei giovani soldati di leva, quella delle festività, delle processioni di paese, dei banchetti nuziali e dei giochi banali di ogni bambino, ricco o povero che sia. Il Belpaese sfuma nelle stanze private, nei momenti intimi, nelle storie minime costituite di attimi insignificanti, nella sfrontatezza dei ragazzi che crescono e si fotografano negli anni Settanta quando molto, moltissimo è ormai cambiato pure nella monolitica società italiana. In maniera diacronica, in un succedersi di stagioni e decenni, ma anche attraverso flashback e riavvolgimenti continui di «nastro», va in scena – spesso per similitudine e assonanza – la narrazione partecipata di un territorio del nostro sud con gli album scovati nelle case di una manciata di famiglie, che vivono in un comune nella provincia di Salerno dove si contano ottocento abitanti. Un sud che nell’immaginario è rimasto cristallizzato alle testimonianze demartiniane e che ora può rintracciare e tessere insieme gli altri fili delle storie mai raccontate.

Archivio Bellosguardo. Fotografie di famiglia e produzione contemporanea è il titolo della bella mostra allestita a Roma presso la sede dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – Iccd (via di san Michele 18 a Roma, visitabile fino al 31 gennaio). È molto più di un’esposizione temporanea, perché fa capo a un ambizioso progetto ideato dal fotografo Alessandro Imbriaco (con la collaborazione scientifica dell’Iccd, il coordinamento dell’Associazione Rehub Alburni e il patrocinio del comune di Bellosguardo): l’obiettivo è quello di costituire un archivio per immagini del Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano così da riconsegnare una identità condivisa a chi ci abita e anche rilanciare il territorio. Il tutto, attingendo a un patrimonio nascosto, custodito e tramandato di generazione in generazione e anche proponendo nuove visioni dei luoghi e dell’everyday che si dipana nel tempo presente.

La mostra romana, fedele alla sua doppia anima che vuole evitare un nostalgico effetto vintage, si articola in due sezioni: Fotografie di famiglia, a cura di Benedetta Cestelli Guidi con Martina Alessandrini recupera gli originali delle fotografie messe a disposizione dai cittadini di Bellosguardo (al centro, una videoproiezione di Imbriaco ne propone un mixaggio filmico e poetico) e Produzione contemporanea, a cura di Francesca Fabiani che punta sul futuro, attraverso le campagne fotografiche di «ricognizione artistica», trame affabulatorie libere, condotte da cinque fotografi emergenti ospitati in residenza: Alessandro Coco, Valerio Morreale, Nunzia Pallante, Mattia Panunzio e Sarah Wiedmann.
Il grande lavoro (di cui la rassegna è solo la punta dell’iceberg) di indagine documentaria e insieme creativa è anche stato oggetto di un processo di digitalizzazione mettendo al riparo quei documenti originali nati fuori da ogni convenzione di linguaggio codificato ma rispondenti comunque alle regole della rappresentazione sociale ed economica di sé e dei propri consanguinei.

La ricerca della controstoria o, meglio, del controcanto sotterraneo che ha accompagnato nei secoli eroi ed eroine è pratica consueta nell’antropologia e negli studi etnografici. Ma oggi acquisisce una nuova dignità artistica: nell’ultima ristrutturazione del Moma di New York si è voluto dare una luce propria alle collezioni degli home movies, quei super8 girati con mano incerta e che spesso celebrano eventi con sequenze ripetitive sprigionano dal loro interno una magia rara, che poi è il mistero del vissuto di ognuno. E insieme, dell’impossibilità – nonostante il desiderio – di poter archiviare l’esistenza.