Il tempo è solo un’idea, una percezione astratta. Il tempo lo puoi riconoscere soltanto nelle rughe che si sono formate sul volto, nelle cartilagini che non funzionano a dovere, nell’immagine allo specchio che non risponde più all’idea che si aveva di sé, oppure nella crescita dei propri figli, ma quando il passare del tempo non è evidenziato da effetti tangibili rimane un’entità astratta. Così sono sorpresa dalla cospicua quantità, 10 anni, di tempo che è passato dalla morte di Alberto Grifi. La scusa di cui si servì per attrarmi a casa sua fu la più banale per un regista che vuole sedurre un’attrice: «puoi aiutarmi a finire un mio lavoro vorrei che leggessi alcune cose, magari anche in francese, se lo sai, e poi se ti va vorrei anche girare alcune scene nuove» Ed io: «certo quando vuoi, figurati, è un onore…». Che poi lui non fosse un regista tradizionale che usava gli attori lo sapevo benissimo, come lui sapeva che anche io col mio teatro non avevo certo un’esperienza classica e quindi mi sarei facilmente prestata ai suoi esperimenti.

Affetti speciali, come lo chiamava Alberto, è stato l’inizio di una storia d’amore, la nostra.

Il vero titolo del film è A proposito degli effetti speciali e lo abbiamo portato alla Biennale di Venezia 2001 nella sezione le giornate degli autori. Quando chiudemmo il montaggio per mandare la copia a Venezia non c’era ancora stato il G8 di Genova, né le twin towers a New York, il discorso di Alberto era piuttosto pacificato e tendeva all’armonia, questi due eventi tragici lo spinsero a riaprire il film e ad inserire una nuova parte di testo, netta e dura, che qui trascrivo.

UNA SORTA DI TESTAMENTO

«Quanto a me intervengo dalla TV, riflesso in uno specchio deformante, pupazzo mostruoso profugo scacciato dalla tracotanza antropocentrica e scampato nelle discariche del subumano, oppure autoritratto da arte degenerata, un lapsus massmediatico che testimonia le menzogne con cui l’impero occulta i suoi crimini, deformato dalla diossina del Vietnam, leucemizzato dalle schegge di uranio impoverito dell’Irak, mutilato dalle mine antiuomo del kossovo, bombardato dalle missioni umanitarie che sterminano sistematicamente soltanto popolazioni civili, sfigurato dai pestaggi negli scontri di piazza e dalla violenza carceraria, ferito, infettato, drogato di droghe spacciate per riconvertire in denaro il traffico di armi, corpo che fu forza lavoro, poi disoccupato, poi carne da cannone, preso in carico da mafie e governi che dai liquami da fogna che circolano ormai nelle sue vene riescono ancora a vampirizzare enormi profitti senza pietà ne vergogna. Il nemico di turno, si dice, è sanguinario, intollerante, diabolico, è certo che massacra i diversi in nome di Allah, infibula clitoridi, lapida le proprie donne, amputa le mani ai ladri, non conosco quella violenza, quell’odio, i gironi senza fine di quell’inferno, ma so qualcosa del nostro paradiso monoteista, capitalista, consumista, degli adoratori del denaro, perché è proprio l’arte degradata a pubblicità che lo pianifica promettendo che tutti i desideri, perfino quelli ancora da inventare saranno soddisfatti, purché quei desideri siano ridotti a merce, e che coloro che desiderano siano merce essi stessi, insignificanti come il comune denominatore che li rende equivalenti: il denaro. I sentimenti di solidarietà umana, di comprensione per i diversi, la generosità, l’amicizia, l’amore dovranno sparire, non danno dei frutti, non sono articoli da supermercato.

Gli uomini sono spesso dei prigionieri e vagamente sentono, come succede a certi uccelli in gabbia a primavera, che c’è qualcosa da fare, il nido, la covata, che è tempo di percorrere i cieli, eppure sanno di non poterlo fare, di essere legati da qualche dura impossibilità e invano continuano a battere la testa contro le sbarre della gabbia fino a impazzire di dolore.

Ma amate seriamente, profondamente e la prigione sarà dissolta come cera dal calore penetrante della simpatia. Sai, tu, che cosa fa sparire la prigione? È ogni affetto profondo, serio, essere amici, essere fratelli, amare, questo apre la prigione per sovrana potenza, per potentissimo incantamento, ma colui che non che non viene a questo rimane nella morte.

«Le strade di Parigi sono piene dei loro cadaveri questo spettacolo spaventoso servirà di lezione!». Lo stato proclamava che così le popolazioni operaie, 60.000 comunardi massacrati per mano dell’esercito, erano state protette dal pericolo degli scioperi. Qualche anno dopo Van Gogh arrivò a Parigi, un uomo indifeso, respinto in amore e rifiutato dalla società piccolo borghese per il suo eccesso di zelo nel soccorrere i minatori feriti; poi rinchiuso in manicomio perché scandalizzava le persone rispettabili che s’indignavano davanti all’arte moderna. Si accorse di essere stato gettato anche lui dall’altra parte della barricata insieme alla vilissima moltitudine che ricominciava a lottare in clandestinità.

Al di là della mano impacciata dell’artista s’intravede come la rabbia popolare, l’ansia di libertà e giustizia represse nel sangue, si vadano a sommare a questo nuovo modo dei pittori divisionisti di dare forma ai corpi che scompone i colori e li ricompone in luce. Un viaggio che sembra giungere alle microstrutture in vibrazione, alla sostanza dell’universo, e non si tratta di astratte formule matematiche, ma della descrizione del mondo, cieli e terre in un canto senza fine, del pianeta come corpo d’amore al quale donarsi totalmente, spinozianamente, un dono che trabocca dai limiti canonici dell’arte per riversarsi come pratica urgente di trasformazione, non della pittura ma della vita. Una scelta che, poi, in tempi di rivoluzione all’inizio del ‘900, teorizzavano anche i futuristi russi e i dadà. Bisognerà liquidare l’impotenza dell’arte perché la realtà stessa divenga il luogo della creazione, per tener viva la vita , per tenere aperte le comunicazioni autentiche fra gli esseri viventi…

Progettare un corpo collettivo, nuovo, configurare una nuova geografia di passioni molto aldilà del limite angusto dell’orizzonte antropocentrico e da lì ricomporre una nuova intelligenza abituata a considerare che è il nostro pianeta, è lui la creatura vivente, composta da un intreccio osmotico di condizioni biologiche di soggetti viventi diversi, di pulsioni libidiche differenti tra loro tante quanti sono i suoi abitanti, non solo quindi gli uomini e le donne ma anche l’infinita varietà degli animali, delle piante e non va dimenticato che nel pensiero primitivo originario tutto è vivente anche il mare, le montagne, il vento, i fiumi».

Alberto nell’ultimo periodo della sua vita sperava di riuscire a editare un libro mettendo insieme i materiali scritti nel corso degli anni, purtroppo non ce l’ha fatta. Forse non avrebbe inserito questo pezzo che segue perché troppo personale, però, proprio per questo l’ho scelto, perché svela inquietudini, solitudine, incertezze, malinconie, sensi di colpa, e, penso, una grande capacità e duttilità di scrittura.

SCRIVERE UN LIBRO

«Viaggiare, viaggiare per odio. Quel che fuggo adesso lo so: è il vuoto. Passo di terra in terra, vado di città in città e non incontro niente. Metropoli immense, autostrade immense… come mai non sento mai niente… Sono io che trasporto il vuoto dovunque vada come un sordo per il quale tutti gli uomini sono muti…Certe volte sono stanco di tante immagini. Vorrei che si aprisse il guscio di plexiglass che mi tiene rinchiuso. Essere qualcuno, essere uno in rapporto agli altri non poteva bastare. Il mio nome non lo voglio più: chiamatemi col vostro nome.

La musica che esce dagli altoparlanti è bella: somma le note l’una all’altra; non abbandona gli uomini.

Nei cinema in fondo alle sale nere vaste come cattedrali il film non smette mai; i volti passano e ripassano sullo schermo; gli occhi sono aperti, le bocche parlano e ognuno può scegliersi il finale che vuole. È una storia d’amore forse, ma dove non si finisce mai di amare. Un uomo guarda una donna per mesi poi per mesi è la donna che guarda l’uomo. Non dormono non si lasciano, continuano a trasalire quando la loro pelle si tocca, e l’uomo accarezza la spalla destra della donna per molto più di venticinque anni. Dicono delle parole. Dicono: Ah! Mh! Come? Vieni! Hai dei puntini neri lì. E i capelli ti piacciono così? Mh, sì, sì.

Poiché non posso pensare come Socrate o come Lao Tsé, poiché non posso cambiare la vita degli uomini come Gesù Cristo o come Engels, poiché non saprò mai essere neppure me stesso, assolutamente me stesso, me stesso fino all’estasi, mi rimane questo: battere il suolo coi miei passi. Distendermi. Divorare lo spazio. Divorare gli spettacoli. Vedere sfilare i nomi sui frontespizi delle stazioni, conoscere ogni sorta di donne straordinarie, ogni sorta di uomini, ogni sorta di cani.

Sulle strade senza fine corre la Chevrolet modello 1956. L’aria fischia lungo i finestrini e il vento di sabbia attraversa la strada. Le miglia, gli anni luce, arrivano a tutta velocità. I recinti di filo di ferro rimbalzano…

Ci sono tante figure retoriche, sistemi, postulati, evidenze, macchine. Le macchine per vivere, le macchine per camminare, le macchine perché non ci siano più guerre, le macchine per amare una donna, le macchine per dimenticare la morte.

Ancora più lontano, ancora più tardi. I giorni passati nelle astronavi sono lunghi: corrono all’indietro a tutta velocità. E ci sono molte stelle e galassie ammucchiate all’orizzonte.

Le strade non finiscono, non finiscono mai.

Si vedono cani schiacciati sul bordo delle strade e carcasse di vacche dove si pascolano gli avvoltoi.

Si vedono carcasse di astronavi lungo le orbite del cielo e scheletri nelle loro tute.

Le astronavi nel buio del cosmo avanzano in segreto. Quand’è giorno, vicino alle stelle, tutto esplode.
Jeune homme Hogan diede una gomitata nello stomaco al soldato. La ragazza dagli occhi di carbone gli schiuse le labbra e si mise a ridere; aveva due denti d’oro. Jeune homme Hogan le chiese perché . Disse che l’avevano picchiata. Disse che aveva avuto un incidente di moto. Disse che era stato il dentista.

Non disse niente.
Vorrei davvero scrivere, vorrei davvero scrivere come si spediscono le cartoline. Ma sono cose che non si fanno. Non posso dire semplicemente sono andato qui e poi là e poi ho preso il treno per Benang e un giorno mentre costeggiavo il Panama tra l’isola di Nargana e l’isola di Tikantiki il motore è andato in avaria e ho dovuto pagaiare… O quando ho detto uap uap. Oppure sulla strada di Oaxaca un omone coi baffi su una Cadillac viola ha tirato fuori una rivoltella e mi ha preso di mira gridando: que quieres!

Non li posso dimenticare, non li dimenticherò. Ma è così: non potrò mai tradurli in altre parole; né trasporli in storie veritiere e leggermente avventurose. Non è successo niente, non è successo niente, non conosco niente. Non vi ho saputo mandare le cartoline quando sarebbe stato necessario. E allora come potrei dire che cosa è la miseria, o l’amore, o la paura… Forse si scrivono romanzi soltanto perché non si sa scrivere una lettera. O viceversa.

Tutte le parole che fanno paura che non si osano scrivere, le parole per cui si sono inventati i simboli i misteri gli aggettivi; desiderio sesso fame sete male piacere paura malattia povertà gelo amore assassinio bellezza aria mare sole; queste parole che brillano che scintillano in silenzio, che sono fredde e brucianti, lontane come le stelle e che non si possono non vedere; le uniche parole vere; le uniche certezze; quelle parole dure lanciate verso il futuro e che filano come razzi acuminati. Per raggiungere queste parole bisogna sfuggire all’altro mondo; bisogna sfuggire alla voluta grigia che sale dentro il corpo e fa scuotere la testa dagli occhi morti…

Dal fondo dello spazio: uomo che non ha mai avuto le idee dei giaguari e neppure le zanne delle scimmie senza pensarci ha fatto le macchine di metallo chiaro. Coi grandi gesti meticolosi. Dei finalmente vivi, ricchi sui loro piedistalli.

Le loro facce sono come pugni.

Le stelle sono pozzi di vendetta perché sono i segni dell’impotenza…

È una guerra contro l’altra organizzazione, quella del caos del brulichio dell’odio…

La luna è simbolo dell’inferno perché ci fa vedere che cosa è il mondo nell’universo.

Le stelle sono pozzi di vendetta perché sono i segni dell’impotenza. Non voglio più vedere la Terra. Non voglio più conoscere la trama della storia. Non voglio più protendermi sulla mia faccia, né conoscere la vecchia sfera del pensiero in cui tutto è prigioniero. Non voglio nemmeno più immaginare questo minuscolo deserto sospeso tra quattro mura. Se ci penserò lo farò come potrebbe farlo una lumaca o uno scarabeo… Maledetto giardino della coscienza! Come potrei stargli ancora davanti, se non posso guardare una mela, o una tavola, senza vedere subito la parete del vuoto…»

Questo che segue è parte di uno scritto inedito di Aldo Braibanti su Transfert per Kamera girato da Alberto Grifi durante le sue improvvisazioni teatrali

Transfert per kamera di Alberto Grifi, è la prima esile esperienza non abortita di questi incroci nella sperimentazione del discorso privato di ognuno di noi, nel suo relazionarsi al dialogo, nel rivarcare la soglia, scendere di nuovo al nucleo col mutuo soccorso dell’infezione, e di nuovo ritrovare l’uscita sul continuum. Ora che preparo, entro il prossimo autunno, l’ultima e più grande sperimentazione di Virulentia, e gli incastri mi esaltano mentre esalto, contro e oltre i falsi e spesso inutili appannaggi della reazione, il recupero della memoria di fronte al lavoro di Alberto ripropone il niente di fatto di quel ricominciamento da capo che è ancora il mio piacere più eccitante – e più necessario. L’incontro del 66-67 è ora evidenziato dall’ulteriore e diverso sviluppo del lavoro mio e di quello di Alberto. Ma così era anche al tempo dell’incontro. Anche allora la diversità validificava le affinità elettive. Il co-transfert non solo non esaurisce i due termini, non solo non li blocca all’appuntamento, ma, violentata la propria funzione terapeutica, o, se si vuole, catartica, si evolve in molti metodi e in una sola insaziabile istanza metodologica. E’ ovvio che di questo ultimo aggettivo si ideogrammano molte varianti semantiche, molte loro gestualizzazioni provvisorie nella officíazione del rito, e la conseguente usura di ogni possibile ideologia. Né sette né chiese. La sperimentazione mi convince sempre di più che il primo percorso del bisogno insopprimibile di legare è oggi più che mai il gesto che slega e non anticipa sintesi artificiali.

Ci basta identificare, nella prassi, vita, ricerca, poesia, amore.

Vorrei aggiungere che l’utilizzazione magica dei mezzi tecnici da parte di Alberto non ci dovrebbe mai fascìnosamente distrarre.

Il discorso di Alberto vale la candela di questa magia, proprio perché mi so ascoltato da lui quando e quanto imparo ascoltarlo.

Il giuoco mi sembra ancora bello e ancora aperto.

Roma, Gennaio 1971