Capita che un pomeriggio di domenica apri un libro, Santa Bronx, sottotitolo Alberto Dubito Disturbati dalla CUiete, accompagnato da un cd. Lo fai girare, il cd. E i versi di chi canta, modulati in battiti di posse rap, ti spingono a cercarli sulla carta. Devi leggerli, non basta ascoltarli; devi seguirne il flusso senza perdere una sillaba. Traccia 1, Storie abbandonate «Queste storie abbandonate/come i cantieri ai bordi dei quartieri/Siamo cresciuti in disordine, come queste periferie torbide/di cui azzardo una parafrasi/Tra carezze più gelide di un forse/negli schermi all’asma/carenze e relativi anestetici». Traccia 7, Le periferie arrugginite, «Tre quartine per dire chi non siamo:/do inchiostro al foglio, lui si prende la mia mano/La periferia è il disordine che vuole, dista/chilometri dal cuore, ma è il centro del dolore, lo/concentra, conta fino a cento, poi esplode/Ricorda, la paura è la peggiore delle mode/schiaccio pausa, trovo pace nel vuoto industriale/allento la morsa del collare, torno a respirare». Traccia 11, Il ciclo dei vinti 2.0 «Non cercate il mio corpo tra la neve/resto sulla nave, anche se potrei tornare in delay/Ok, lo ammetto: ho paranoie all’Amleto/monologhi con il riflesso nel vetro e poi: goodbye».

Sulla carta d’identità si chiamava Alberto Feltrin, Alberto Dubito lo pseudonimo e manifesto esistenziale. Quanto ai Disturbati dalla CUiete, erano lui e Dr. Sospè, all’anagrafe Davide Tantulli. Ultimo disco insieme, 2012, La frustrAzione del lunedì e altre storie dalle periferie arrugginite. Alberto «si chiamava», perché il 24 aprile di sei anni fa se n’è andato, chiudendo con un volo dalla finestra della sua stanza una vita cui si era affacciato nel 1991. Vita densa di musica, prima di tutto, ma che girava il suo sguardo anche alla fotografia, ai video, alla street art; alla poesia, confluita in un libro, Erravamo giovani stranieri, pubblicato dall’editore milanese Agenzia X, che continua a ristamparlo. Invasivo e superfluo sarebbe parlare delle ragioni che portarono Feltrin alla sua scelta. Meglio pensare a quel verso, «Resto sulla nave, anche se potrei tornare in delay», frammento dalla ghost track dell’album finale. Alberto è tornato in delay grazie al cdbook pubblicato da Squilibri di Roma, e arricchito da una poetry comix di Claudio Callia, con il preciso intento di ribadirne la statura poetica e musicale. Perché se Alberto avesse scelto di restare con noi, è facile profezia affermare che non avremmo potuto definirlo semplicemente un rapper, né ci saremmo sentiti autorizzati a chiuderlo nel recinto di un genere.

Il quartiere operaio di Santa Bona, periferia di Treviso dove era nato, e da lui ribattezzato Santa Bronx, divenne il germe ispiratore per narrare le periferie arrugginite: tematica dichiarata, allusa, nascosta, resa metafora in tutti i suoi lavori. Ma con una differenza sostanziale nel racconto, che la prefazione di Lello Voce al volume ben esplicita: «Ciò di cui parla (Dubito ndr), si badi bene, è… uno scenario antropologicamente, poeticamente e urbanisticamente assai lontano dal luogo comune del rap come Cnn del ghetto… Intanto perché il ghetto, la periferia cui fa cenno continuamente la scrittura di Dubito, è qualcosa di molto diverso dagli slum dei primi anni ’80, e poi perché ciò che Dubito fa è molto più che una denuncia, per quanto radicale, delle condizioni di vita penose e discriminate di questa o quella minoranza. Ciò che Dubito cerca è lo strappo nella rete, il buco nel muro attraverso cui sfuggire a questo spazio, una dinamica che sia capace di essere insieme una fuga e l’atto fondativo di una realtà nuova, compiutamente immaginata e ancora incompiuta».

Non era figlio di operai, Alberto, ma di un docente universitario. Distanza di classe che mai prese in considerazione e tantomeno pensò di cantare in chiave riparatrice di un privilegio. Se lo avesse fatto, la sua straordinaria creatività ne sarebbe uscita mortificata. Altrettanti, straordinari, risultati produsse il sodalizio con le magie elettroniche del Dr. Sospè, esaltate dai violini, dai flauti, dalle chitarre, dai cori dei complici che si univano al duo dei Disturbati. Sulle fondamenta dell’hip pop, Tantulli e Dubito sapevano costruire architetture eclettiche mescolando il cemento a presa rapida del punk, del rock, del dub, del jazz, dell’heavy metal. Da queste architetture usciva la voce di Alberto e l’uso in essa del respiro a scandirla, accelerarla, darle pausa di attesa, renderla sequenza vertiginosa di parole sempre chiare e perfettamente intelligibili, consentirle di arrampicarsi fino a urlare, scendere e posarsi prima di affrontare una nuova salita.
Ancora dalla prefazione «… Le parole, nei brogliacci originali, sono spesso interrotte da un punto fermo che sta per pausa, che rende la prosodia singhiozzante, che dà indicazioni ‘a spartito’ assolutamente chiare per un’eventuale performance. Che fa del testo poetico un codice segreto da banda metropolitana, comprensibile solo a chi respiri come lui». Di quel codice, però, SquiLibri ci ha svelato le cifre. Scardinando così il silenzio lasciato cadere intorno a un artista ingiustamente dimenticato, come le periferie di lotte e di rabbia cantate nei versi di Frustrazione: «Amo l’arte giuro, ma sto male nei musei/sangue caldo nei cortei, giù le mani dal futuro/Figli di un’Europa condannata a morte/facciamo festa sul Titanic e poghiamo urlando più forte».