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Con Alberto Boatto, scomparso a 87 anni la notte fra mercoledì e giovedì, se n’è andato l’ultimo rappresentante di una stirpe che ha «fatto» tanto Novecento: quella dei critici d’arte anche-scrittori. Se tanto contò per esempio Roberto Longhi, per alcuni dei maggiori scrittori del secolo, lo si dovette anche, se non soprattutto, alla presenza materiale della sua scrittura: con la sua capacità di convocare sulla pagina l’«equivalenza verbale» delle immagini dell’arte. Ma questo ruolo è venuto meno, dagli anni Settanta, con la trasformazione di quello che Achille Bonito Oliva, primo rappresentante del nuovo modo d’intendere il ruolo, chiamò sistema dell’arte.

LA SITUAZIONE storica di Boatto ne fa allora una figura di confine, lacerato fra due mondi. Non gli mancò un talento singolare in quella che, da allora, è invalso chiamare scrittura espositiva: ne fa fede una mostra come Ghenos Eros Thanatos, del ’74 (che nella grande retrospettiva, curata qualche anno fa al Palazzo delle Esposizioni da Daniela Lancioni, figurava fra i quattro appuntamenti-chiave del tempo – insieme a Fine dell’alchimia di Calvesi e a due mostre appunto di Bonito Oliva, Vitalità del negativo e Contemporanea).

Ma di quell’episodio, significativamente, ci resta soprattutto un grande libro: quello omonimo che, l’anno scorso, ha magnificamente restaurato Stefano Chiodi. Forma ibrida inquietante – come pure, tre anni dopo, Cerimoniale di messa a morte interrotta – nel suo incrociare saggio, narrazione, criptatissima autobiografia. Psicoanalisi, antropologia, cultura del «negativo» sono gli strumenti di questi che sono i libri neri dell’arte italiana.

DAVVERO POCHI sono i testi letterari che, di quel tempo, sappiano al pari di questi restituire il gelido fervore analitico e insieme il senso di una quasi disperata, proprio perché tutta implicita, dépense esistenziale. Il clima, cioè, della fine di un’epoca. La scrittura di Boatto, in questi casi, davvero ascende in un altopiano verticale e inospite che, in mancanza di meglio, definiamo letteratura. È il caso altresì dello Sguardo dal di fuori, dell’81 (riproposto nel 2013 da Castelvecchi), che segna il congedo definitivo dai riti e dai miti della modernità. Ma è giusto ricordare pure i suoi libri più «istituzionali»: come quello pionieristico sulla Pop Art (pubblicato nel ’67 e più volte ristampato da Laterza: lo stesso editore di diversi altri suoi libri come il bellissimo Narciso infranto, sulla tradizione dell’autoritratto). La sua ultima pubblicazione, Chi è cacciato dal Paradiso? (edita pochi mesi fa da Mudima) è una riflessione, come dice il sottotitolo, sull’«estetica e teologia del giardino»; ma si conclude su una nota personale, che risale all’infanzia fiorentina povera e incubica.

CON RITEGNO sofferente, ma anche un’evidente volontà di liberarsi, da ultimo Alberto si mostrava incline a svelare i recessi più protetti della propria vocazione alla scrittura. E magari non mancheranno sorprese, fra le sue carte, non meno illuminanti di come ha saputo raccontarci l’avventura dell’arte moderna.