Alan Wake è uno di quei giochi spaccamascelle che tutti i possessori di una console Sony hanno invidiato per anni, esclusiva PC e Xbox. Ora, a distanza di 11 anni, giunge una remastered di questo iconico titolo, disponibile anche per la PS4 e PS5. Ha senso però, nel 2021, dopo tanto tempo e troppi giochi, un’uscita di un survival horror che all’epoca era sì concorrenziale, ma che potrebbe risultare, ai giorni nostri, interessante solo come oggetto vintage?

La domanda è spontanea e la risposta è facile: Alan Wake è un classico, un po’ come lo sono, nella letteratura, I Malavoglia di Verga, Cime Tempestose di Emily Brontë, o, al cinema, La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock e Rocky di John G. Avildsen. Un classico e, come tutti i classici, immortale, evergreen, un Highlander che non ha paura di perdere la testa al ritmo di Who Wants To Live Forever dei Queen.

Alan Wake era bellissimo, faceva paura ed era perfetto nel 2010 così come nel 2021, malgrado le svirgole, la grafica che nulla può la pulizia dell’immagine, le innovazioni che ora possono sembrare cliché, a cominciare dalla divisione in episodi come fossimo in una serie tv. Alan Wake è un caposaldo del genere, uno di quei titoli più innovatori del survival horror, qualcosa che ogni appassionato deve prima o poi provare, al pari di un Alone in The dark, un Resident Evil o un Silent Hill. In termini di lifting, il gioco deve vivere una strana dicotomia schizofrenica: più dettagliato durante il gameplay rispetto al passato ma anche con la stessa definizione pixellosa del 2010 nelle cut scene, un tempo all’avanguardia, ora tremendamente ingessate e interpretate da manichini inespressivi. Questo deriva anche dagli intenti degli sviluppatori che, dalle interviste, hanno ribadito l’idea di dare all’opera un aspetto sicuramente più pulito e dettagliato, ma rifiutandosi di remasterizzarlo in HDR così da non falsare i colori e le ombre del mondo virtuale, creato in un periodo dove, appunto, questa tecnologia ancora non esisteva.

È bellissimo però perdersi ancora, o per la prima volta, a Bright Falls, immaginaria cittadina di montagna che ospita le avventure di Alan Wake, scrittore di successo col vizio del bere, non dissimile dal modello di Stephen King. La vegetazione rigogliosa, i suoi laghi mozzafiato, l’aria di neve che sembra entrarti nelle ossa è qualcosa di difficilmente raggiungibile in un videogioco non open world. HDR o meno.

Anche la parte horror però, giocando al titolo a luci spente e con le cuffie, fa la sua bella figura. Ci si dimentica subito degli anni trascorsi quando la notte cala e, armato di una torcia e di pistola, devi fronteggiare i tuoi nemici, schivando e stando attento a non sprecare risorse e munizioni, pena la morte. La lezione di Alone in the dark è compresa e fatta propria in Alan Wake: le tenebre non hanno fatto mai così paura in un gioco soprattutto quando, con la luce che sfarfalla sempre più fino a calare, il game over è vicino. Ecco che questo titolo Remedy, diventa iconico, prendendo idee altrui e rimescolandole in intuizioni originali così da essere unico e irripetibile, spaventoso e al cardiopalma come pochi altri titoli moderni.

Il mistero di che fine abbia fatto Alice, moglie dello scrittore, confuso e perso nel suo delirio letterario e alcolico, è ancora una di quelle avventure che sanno sorprenderci e commuoverci, increduli e un po’ spauriti in un mondo all’apparenza amichevole che, al calar delle tenebre, rigurgita i suoi orrori.