Alan Sorrenti è un artista libero; il successo strepitoso che l’ha accompagnato dalla fine de ’70 ai primi ’ 80 l’ha sì cambiato, ma non ne ha spento il desiderio di far musica come voleva. La «discografia» come la chiama non l’ha piegato come le vicissitudini esistenziali ed oggi, a quarant’anni dall’uscita di Figli delle stelle, Sorrenti, classe 1950, è pronto per un nuovo tempo della sua carriera. A marzo saranno riediti gli album dei settanta con tracce rare e inedite e ci saranno concerti; per l’autunno prossimo forse un album di inediti. L’intervista telefonica, reduci da un ascolto completo in spotify anche degli anni prog, è diventata così una vera e propria conversazione; dagli inizi fino ai progetti futuri, partendo proprio dalla ripubblicazione catalogica della Universal di Figli delle stelle, discrimine per la sua carriera come per tanta musica italiana. Sorrenti ragazzo sognava con la chitarra, ma a dispetto di tanti era dotato di una voce unica. E se ne accorsero immediatamente i discografici quando ascoltarono la cassetta con il provino dell’embrionale suite Aria : «Allora era in atto una rivoluzione musicale senza precedenti con Pfm, Banco, Area e tra questi indiscussi protagonisti di quel periodo d’oro ci sono anch’io. Avevamo rotto gli schemi». «Lo schema era quello di seguire la discografia. Invece le cose si sovvertirono erano le etichette che seguivano noi».

«Oggi il segno per emergere è dato dalla partecipazione ad X-Factor. Questo schematizza». Dunque, Sorrenti punta il dito su un modo di far musica che non condivide; mentre prima c’era un modo di suonare, anche professionalmente, restando fedeli alle proprie idee. Tornando agli inizi:«Ero a Napoli quando rimasi folgorato dall’ascolto di Tim Buckley. Grazie alle sue canzoni e al suo modo di cantare, cominciai ad esplorare le possibilità della mia voce. Subii l’influenza anche di Leonard Cohen. Vorrei incontrarti discende dal folk d’autore e proprio da lui».

Poi arriva Londra: «Lì capitai nel momento in cui si sviluppava la fase classica del progressive. Vidi in concerto i King Crimson, mi piacque il canto di Greg Lake. Mi trovavo vicino a ciò che stava succedendo». «Ero fortunato, mi ritrovai in situazioni particolari. Al Vomero, dove abitavo, erano molto attenti alla musica. Poi, ci si frequentava con gli altri gruppi e musicisti, ci si incontrava nei festival, anche se non si collaborava, c’era rispetto e grande libertà. Con gli Osanna, con la NCCP, e altri. Vestivamo come volevamo». Insomma, nessun formalismo era all’ordine del giorno. Anche se alle porte vi era una strisciante connotazione politica che doveva ammantare la musica.«Io mi sono considerato sempre un outsider, entro e esco dal sistema. In Vorrei incontrarti ci sono frasi che sono state interpretate politicamente. Ma io né manifestavo fuori i cancelli delle fabbriche, né volevo trovare la felicità in India».«Ad un certo punto dovevo chiarirmi il ritmo e andai in Africa. Da quell’esperienza scaturì Sienteme.

A gennaio uscirà l’album dei riformati Saint Just della sorella Jenny in cui Sorrenti la ripropone insieme a Vorrei incontrarti – «l’unico passaggio possibile furono gli Stati uniti. Fu un viaggio rocambolesco, ci fermammo in Islanda. E poi New York che non mi piacque. Soggiornai al Chelsea Hotel come voleva il produttore. Una vera assurdità. Vedo Sun Ra. La breve permanenza mi stordì completamente. Andai a San Francisco a rintracciare Buckley che purtroppo era morto da poco».

In California però nasce Figli delle stelle: «Prima c’è Sienteme, che è un po’ il passaggio dalla fase folk-prog a quella che io chiamo con Figli delle stelle del L.A. Sound e non disco. Faceva ballare, ma non era Donna Summer. C’era un sound nero rappresentato dagli Earth Wind & Fire e uno bianco da Jay Graydon degli Steely Dan, che trasformerà il vocalizzo di Heaven nel riff chitarristico di Figli delle stelle». Sta nei fatti che la carriera di Sorrenti sterza e i successi si susseguono l’uno all’altro:Tu sei l’unica donna per me, Non so che darei, diventano la colonna sonora di alcune estati. Ma, il cantante non si sente a proprio agio: «L’essere un outsider mi ha consentito di trovare finalmente risposte al successo, spropositato che avevo, dovevo restare in certi limiti, ma non volevo essere una popstar, volevo essere altro. Ciò accentuò il mio già vivere al limite e caddi preda degli stupefacenti. Mi sono ritrovato con il buddismo e l’aver capito quale musica mi piaceva e continuo a suonare».