Immediatamente riconoscibile, la qualità della scrittura di Alan Pauls suona come una musica familiare sin dalle prime battute, e questa prerogativa del suo stile è tanto più significativa in un panorama, come quello latinoamericano, che si direbbe un po’ appiattito su una stessa linea d’onda. Dopo aver dedicato sette anni a quella che ha definito una Trilogia della perdita (Storia del pianto, Storia dei capelli, Storia del denaro Sur, 2006-2013) è tornato alla narrativa. Alla vigilia del Salone del libro di Torino, dove sarà sabato 16 ottobre, lo abbiamo incontrato proprio per parlare di questo suo ultimo romanzo, La metà fantasma (bellissima traduzione di Maria Nicola, Sur, pp. 356, € 18,00), che sebbene si distanzi dalla sua produzione precedente sia per quanto riguarda gli argomenti trattati sia nella costruzione narrativa, torna a ricordarci il grande lavoro sulla parola che ha sempre connotato lo scrittore argentino. Partiamo dunque da qui.

Leggendo questo romanzo si ha l’impressione che la storia si sia fatta strada grazie alle scelte lessicali più che in virtù di una strategia narrativa.
Sono d’accordo, ed è vero che l’interesse verso quella che si potrebbe definire genericamente «la forma» sembra stia scomparendo, forse anche per l’influenza di una certa industria audiovisiva. L’attenzione allo spessore del linguaggio mi fa sentire uno scrittore del secolo scorso, per me non esiste letteratura senza questa dimensione. Mi hanno sempre irritato gli scrittori – in America Latina sono molti – che pretendono di non fare nient’altro se non raccontare storie, come mettendo tra parentesi la matericità stessa del loro lavoro sulla parola, sulla sintassi, sul ritmo musicale della lingua.

I due personaggi principali che lei mette in scena, Savoy e Carla, potrebbero essere i rappresentanti di due mondi separati: Savoy è sedentario, non ama viaggiare, ha un rapporto pessimo con la tecnologia, vive in un mondo stracolmo di oggetti, mentre Carla programma tutta la sua vita al computer, la sua casa entra in un trolley formato compagnie low cost. Se l’opposizione può sembrare in qualche modo scontata, la novità sta nel come, in qualche punto, questi due mondi si incontrano.
Credo che il romanzo intenda proprio alludere al fatto che, nella loro totale diversità, questi due mondi possono desiderarsi, possono risvegliare nell’altro il senso di un enigma, un mistero. Per Savoy il mondo di Carla è totalmente incomprensibile, riesce a figurarselo mentalmente ma è qualcosa di enigmatico che risveglia la sua attenzione. Tutt’altro che un indifferente, Savoy è un uomo di una certa età, esperienza, cultura ben radicata, che viene scaraventato nel mondo esterno in una maniera quasi suicida. Ciò che mi interessava non sta nella differenza ovvia tra un cinquantenne abituato alla sua quotidianità abitudinaria e una giovane trentenne che nuota come un pesce nell’acqua nel mondo contemporaneo, bensì indagare fino a che punto ciascuno di questi mondi può far muovere l’altro verso una direzione inattesa.

Confrontando questo ultimo romanzo con i precedenti, vi si percepisce una certa ironia diffusa, che a volte sfocia nel divertimento, come se per realizzare l’incontro tra quei mondi distanti di cui si parlava ci fosse bisogno anche di una certa dose di disincanto.
Penso a questo romanzo, in effetti, come a una sorta di commedia: era questa la chiave che avevo in testa. È la storia di qualcuno sempre fuori posto, che non conosce le regole di comportamento, i codici da rispettare, e che, nonostante ciò, decide di affrontare il mondo. Una situazione quasi da commedia romantica, quella di un amore a distanza tra due persone di età e culture diverse, che si fa commedia sul senso di spaesamento tra due epoche.

Dunque, una commedia sulle relazioni di coppia, e insieme anche la costruzione di una grammatica dei sentimenti, dove anche le separazioni e le rotture si realizzano nella forma di infrazioni di norme della costruzione linguistica.
Questo aspetto «protocollare» dell’esperienza umana, ovvero come le persone costruiscono regole, linguaggi, modi di entrare in relazione, mi ha sempre interessato. In questo senso, l’esperienza amorosa conserva un’attrazione inesauribile, proprio perché si riscrive in continuazione. La mia eccellente traduttrice Maria Nicola, mi ha detto di avere letto La metà fantasma come un romanzo sul passaggio dal Ventesimo al Ventunesimo secolo, e mi è sembrata un’ottima definizione. Due scrittori sono stati fondamentali per aiutarmi a capire in che modo l’universo dei sentimenti sia allo stesso tempo arcaico e contemporaneo: Manuel Puig e Roland Barthes, due grandi menti capaci di pensare il pianeta dei sentimenti come qualcosa di indistruttibile, in cui tutti siamo condannati a vivere.

In una certa misura questa aria di commedia ricorda le pièces hollywoodiane degli anni 50-60, con quei personaggi maschili un po’ goffi che incontrano ragazze affascinanti e ne hanno la vita stravolta.
Mi attira molto l’idea che la mia sintassi funzioni allo stesso modo di quei piani sequenza così tipici di Kubrick, o di Tarkovskij. E non posso negare che il cinema mi ha insegnato a scrivere quasi quanto la letteratura, non perché vi abbia attinto delle storie, ma perché mi ha insegnato la tecnica del controcampo, il montaggio in parallelo, i piani sequenza, facendomi accedere a uno straordinario laboratorio di forme narrative, di relazioni con lo spazio e il tempo.

Questa concentrazione sul processo della scrittura non inibisce comunque l’invenzione di storie memorabili. Evidentemente l’adattamento alla narrativa delle tecniche cinematografiche le ha fornito la sintesi necessaria tra spessore della scrittura e profondità della storia.
Mah, in realtà, il mio rapporto con il cinema è strano: Il passato, un romanzo che pubblicai nel 2003, venne adattato da Héctor Babenco, ma non fu una buona esperienza, perché dimostrava quel malinteso di fondo per cui il cinema cerca solo di riprodurre le storie presenti nei libri, ciò che per me conta meno. Questa ossessione per le storie mi ricorda peraltro un’idea di García Márquez, che alla fine degli anni Ottanta, con la Scuola di Cinematografia a San Antonio de los Baños, a Cuba avviò un progetto culturale e politico in base al quale i latinoamericani avrebbero dovuto imparare a scrivere soggetti e sceneggiature, come si faceva a Hollywood, per riempirli poi di contenuti latinoamericani. Ovvero, per battere gli americani sul loro terreno. In questo modo però si perdeva proprio il lato più interessante della tradizione cinematografica latinoamericana, quella assolutamente intraducibile che si ritrova, per esempio, in Glauber Rocha o Raúl Ruiz, dove la dimensione narrativa e quella stilistica, immaginativa, concettuale sono indivisibili. Era un progetto, a mio avviso, del tutto sbagliato.

Sulla scia di questo ricordo di García Márquez, vorrei chiederle della sua relazione con Cortázar: la protagonista femminile di «La metà fantasma» sembra avere una lontana parentela con le donne dei suoi racconti, e in particolare con la presenza femminile in «Rayuela», sebbene la sua scrittura si allontani da quel modello.
Con Cortázar ho avuto una relazione complessa: fu molto importante nella mia adolescenza, mi affascinò la sua capacità di costruire le storie, ma me ne allontanai abbastanza rapidamente, anche perché in Argentina da un certo punto in avanti divenne una lettura obbligata, quasi istituzionale. Proprio ciò da cui un giovane scrittore cerca di allontanarsi. Vale anche per Borges, ma lui è assolutamente inimitabile, mentre Cortázar lo è facilmente. Mi allontana da lui anche un certo suo spirito giovanilista, un modo di vivere un po’ alternativo, che si ritrova anche in Bolaño, un autore che, del resto, ha letto e capito molto bene Cortázar.