Alain Touraine è un sociologo che nel corso della sua lunga vita (ha 94 anni) ha dedicato attenzione ai movimenti operai, quindi a quelli sociali, all’interno di una cornice analitica da lui stesso definita come «post-industriale». Lo ha fatto con una determinazione e un impegno che lo hanno portato a lasciare l’École Normale Supérieure per andare a lavorare in miniera per fare sociologia «dal di dentro», per poi tornare a Parigi e dirigere l’École des Hautes Études en Sciences Sociales. Il suo ultimo libro, In difesa della modernità, (Raffaello Cortina, 2019) testimonia il punto in cui si trova il suo percorso intellettuale, che ha al centro i diritti universali e in particolare il contrasto del dominio maschile e la difesa delle persone omosessuali.

Lei ha sempre affermato che il sociale va spiegato con il sociale, come aveva già sostenuto Emile Durkheim, e che la sociologia è una missione. Lo scenario oggi è alquanto diverso da quello novecentesco.
Con il cambio di paradigma avvenuto nel capitalismo contemporaneo sono interessato ai fenomeni e alle esperienze dove emerge la contraddizione se non l’opposizione tra diritti umani e leggi vigenti; e tra le libertà (individuali e collettive) e i divieti imposti dal potere costituito. Inoltre, mi oppongo, in linea con il Nobel Joseph Stiglitz, al determinismo economico: non è l’economia eretta a nuovo dio la causa del solco scavato fra gli haves e gli have nots, bensì le nostre leggi inique. E per risalire la china dobbiamo innanzitutto sostituire ai sistemi gli attori sociali.

Lei si scaglia contro la nozione di identità, sostenendo che l’identità è un dio o un demone che distrugge la libertà. Non crede che il giudizio su questa parola dipenda dal significato che vi si attribuisce? Per esempio Amartya Sen aveva identificato l’identità «positiva» con una molteplicità di aspetti compresenti, non con un’attribuzione cementificata, autarchica, immodificabile…
Amartya Sen aveva affermato che l’identità indiana era definita dalla lotta contro l’islam. Adesso difende l’eterodossia, che l’essere indiano non significa automaticamente essere contro i musulmani: sono completamente d’accordo con lui, anche se la tendenza dominante in India e in Pakistan va in direzione opposta e contraria a quanto entrambi auspichiamo. Ciò non toglie che la parola «identità» abbia assunto una dimensione totalizzante. In Francia i partiti di estrema destra hanno adottato un altro termine, «singolarità» per sfuggire a questa cappa totalizzante. C’è però da riflettere sul fatto che la parola «identità» è inseparabile da «comunità», da Gemeinschaft. Inoltre, è, proprio sulla base di parole come «identità» e «comunità» che l’onda sovranista e populista sta ottenendo consensi che fanno rabbrividire nell’Europa continentale. Io sono per l’universalismo, imprescindibile nel mondo globalizzato in cui viviamo.
Le grandi ideologie novecentesche, nelle loro pur irriducibili differenze, hanno comunque fatto leva su un’idea del «noi» e di uno stato sovrano che lo rappresenti. Il capitalismo, dal canto suo, ha limitato l’oppressione con quel che è stato chiamato liberalismo, ma se pensiamo all’impero britannico del passato ci rendiamo subito conto che non è stato così «gentile». Neanche Venezia era stata idilliaca, e nemmeno Amalfi o Genova: erano dei conquistatori. Né più né meno che come gli arabi o i turchi. Ma, restando al nostro tema, il vocabolario dell’identità e della comunità è un vocabolario della totalità. Per questo, non riesco a nutrire alcuna fiducia in tali parole.

Lei parla di «coscienza di sé». Un’espressione densa di storia.
Siamo passati da pratiche moderne a pratiche riflessive. Si accede cioè a una società della creazione, della coscienza della creatività. Una società, usando un’espressione non sociologica ma letteraria, alla Proust. Il compito dello sviluppo, nel senso materiale del termine, finora è stato quello di schiacciare gli altri. Ha avuto cioè una logica coloniale. I capitalisti hanno tuttavia sempre fatto altro: alcuni si sono occupati di religione, altri hanno fatto i mecenati. Quel che spero si possa raggiungere a poco a poco, anche se io non ci sarò più, è l’aumento della coscienza di sé. Toni Morrison la chiamava self-regard, non volendo usare l’espressione self-esteem che presenta troppi aspetti problematici. Dal canto mio, insieme a libertà e uguaglianza vorrei fosse preservata la dignità di ogni essere umano.

La parresìa, cioè la ricerca e l’affermazione della verità sulle quali insiste Foucault sono fattori rilevanti nella ipermodernità. Lei ha più volte sostenuto che la ricerca della verità poteva essere iscritta dentro società d’ordine, profondamente difformi dalle società di movimento che lei auspica. Come spiega dunque, l’asse verità, dignità, libertà e sistema che si chiude in se stesso?
Lasciamo stare la Grecia nel suo complesso. Atene colonizzava regioni della Spagna, nel sud della Francia, perfino in Italia. Era un’oligarchia dove per essere cittadini era necessario essere proprietari e non bisognava essere né donne né schiavi né meticci. Di conseguenza i «cittadini» erano solo una minuscola parte della popolazione. E comunque il tema della coscienza non affiora prima del XVI secolo. Stiamo ancora svolgendo il bandolo della modernità. E della libertà. Operazione sofferta, lunga, ma appassionante.