Visioni

Alain Resnais, la memoria e l’oblio

Alain Resnais, la memoria e l’oblioUn fotogramma da Hiroshima mon amour

Cinema Ogni evento cruciale ci perfora o ci passa al lato. I film del regista francese sono lì a dimostrarlo. Da Hiroshima ai campi di concentramento alla guerra di Algeria, la sua opera dispiega un costante confronto tra le diverse arti

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 2 marzo 2014

Allora, c’era una volta a Parigi la “rive droite” e la “rive gauche”. No. Così non va bene. Chi è che ha mai creduto a queste pedanti canonizzazioni da manualetto di storia del cinema? Piccole trovate che alla fine si sclerotizzano, tanto che alla fine uno finisce davvero per pensare che fosse tutta una questione di residenza. Si possono definire le scelte di un artista dal suo domicilio? A seconda del bar che frequentava? Montparnasse, Clichy oppure Place de la Bastille?

Alain Resnais è morto. E adesso come si fa a tirare le somme di una carriera iniziata un’ottantina di anni fa? Nato nel 1922 realizza un piccolo film nel 1936, a quattordici anni, L’aventure de Guy. A ventiquattro, e fino a ai trentacinque gira un numero infinito di film che la vulgata, per pigrizia, definirebbe documentari. Sono tra le cose più belle che egli abbia realizzato: pittura, antropologia, memoria, i campi di sterminio, l’oblio, i libri, le statue, gli uomini, la plastica. E a pensarci bene verrebbe da dire – oh, i soliti residui di un’educazione filmica costruita sulla figura dell’autore – che tutte le storie, tutti gli elementi che compariranno a partire da Hiroshima mon amour (1959) fossero già lì, in quei brevi ritratti di pittori (Van Gogh, Guernica, Gauguin tra gli altri), film etnografici (Les statues meurent aussi, realizzato nel 1953 con Chris Marker), l’orrore dei campi di sterminio (Nuit et brouillard, 1956), un magnifico film sulla plastica e la sua lavorazione, un film sperimentale, coloratissimo, molto “pop” (Le chant du Styrène, 1958) e poi la memoria dei libri, le biblioteche (Tout la mémoire du monde, 1956).

Che Resnais fosse un’autore o meno non cambia di una virgola l’effetto che certi sui film hanno avuto su chi li ha visti. Su chi scrive, ad esempio. E forse la differenza tra Resnais e i “giovani turchi” della Nouvelle Vague sta tutta in una diversa sensibilità, in una diversa educazione. I primi film di Truffaut e compagnia guardano al cinema (alla Cinémathèque Française), alle ragazze, al teatro, ai “classici” (Stendhal, Racine, Balzac), i primi film di Resnais sono un confronto con l’arte negra, l’etnologia, il cubismo, quella specie di all over ante litteram che troviamo in certe tele di Gauguin. Riguardano le macchine, la produzione in serie, i buchi neri della storia, lo sterminio degli ebrei, la guerra in Algeria e in Spagna. Siamo più vicini al Musée de l’Homme, insomma.

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Ho appena rivisto Le chant du Styrène  su youtube. In una bella copia digitale. E’ un film strabiliante. Con un finale da brivido, impressionante. Resnais l’ha girato a trentasei anni. Insieme a Sacha Vierny, che ne ha curato la fotografia, suo fido accompagnatore per buona parte della sua carriera. Questo per dire che i film si possono fare da soli (capita a quei filmmaker che la vulgata ingabbia nel lemma “sperimentale”), senza dimenticare che il cinema può essere davvero un luogo di scambio, da cui far scaturire proficue collaborazioni, intuizioni e idee. Penso appunto al lavoro di Sacha Vierny, ma anche alle collaborazioni di Resnais in fase di scrittura, con Raymond Queneau (Le chant du StyrèneMarguerite Duras (Hiroshima mon amour, 1959), Alain Robbe-Grillet (L’année dernière à Marienbad, 1961), Jean Cayrol (Nuit et brouillard, 1956 e Muriel, le temps d’un retour, 1963), Jorge Semprun (La guerre est finie, 1966), Stavisky, 1974), David Mercer (Providence, 1977), Jean Grault e Henri Laborit (Mon oncle d’Amerique, 1980), il cartoonist Jules Feiffer (I want to go Home, 1989). E ci fermiamo qui. E non è solo un vezzo, quello di chiedere a valenti scrittori di collaborare alla sceneggiatura, al testo. Basta rivedere Muriel, L’Année dernière à Marienbad o Hiroshima Mon Amour, o Providence per comprendere quanto stretto sia il legame tra il testo scritto e le scelte di messa in scena, o di montaggio. Di come la seconda persona singolare di La guerre est finie, ad esempio, emerga nei raccordi, nei passaggi più lancinanti, giocando con l’immagine e il suo montaggio, gli anticipi e i ricordi: testo, suono, immagine.

Non avendo l’età per frequentare i cineforum di Guidobaldomaria Riccardelli (ma chissà se il programmatore di Fantozzi amava Resnais…), ho visto per la prima volta i film di Resnais alla televisione, su Retequattro, a notte fonda. La guerre est finie (un capolavoro totale), Muriel e L’année dernière à Marienbad, ad esempio. Il terzo l’ho seguito in uno stato di ipnosi, convinto che mi sarei addormentato. Invece nulla, è andato via liscio come i travelling che ne delineano l’architettura, stregato dai movimenti di macchina e dalla bellezza di Delphine Seyrig. Di Muriel all’epoca confesso di non aver capito nulla. Poi, mi sono reso conto che si tratta di uno dei vertici di Resnais. E ci voleva un critico americano, un genio, Manny Farber, per farmi capire come alcuni registi abbiano preso spunto da questo film, dal suo montaggio cubista, fatto di frizioni, scarti, ellissi, quasi a voler far esplodere una quarta dimensione, quella di un tempo ulteriore nel film (o di un pensiero, direbbe Deleuze).

Ci voleva Manny Farber, dicevo, per farmi capire che tutto Nicholas Roeg, e molte cose dei primi film di John Boorman arrivano da qui. Come se Roeg e Boorman avessero reso ancora più incandescente, frenetico, come se avessero accelerato questo montaggio già di per sé spiazzante, ultramoderno. Muriel: la provincia francese del nord, le rovine, le nuove architetture, le vetrine, i televisori, il boom moderno insomma, il mondo che va avanti, e un appartamento pieno di vecchi mobili in vendita, insieme a un camino ultrakitsch, che in realtà è una lampada che si accende e si spegne. Con Delphine Seyrig così comicamente invecchiata, lei così bella. Forse la più bella. C’è insomma tutta una dimensione artificiale, di plastica, di facciata, apparente, c’è tutta la violenza anche cromatica della modernità (e del cinema) e insieme c’è questa ferita profonda di un passato che non si rimargina, e questa ferita la vediamo in tutta la sua terrificante violenza in quel film amatoriale graffiato, rovinato, proiettato su una parete, tra militari che scherzano in Algeria e la voce off che narra di Muriel e di come ella sia stata torturata. E la vediamo nella polvere che cade sui corpi di Emmanuelle Riva e Eiji Okada in Hiroshima mon amour. Il presente, la memoria, l’oblio: non hai visto nulla ad Hiroshima. Non hai visto nulla in Algeria. Come se tutte le questioni affrontate fino ad allora da Resnais, tutti i temi a lui cari, fossero stati incapsulati dentro quell’appartamento simile al magazzino di un bricoleur, un archivio che debba essere riordinato.

Ogni evento cruciale ci perfora, ci trapassa, o ci passa a lato, fingiamo di non percepirlo. Per questo non ci resta che vivere tentando di farci i conti, sistemarlo, in qualche modo. Al cinema. Come nella vita. I film di Alain Resnais sono lì a dimostrarlo. Piani della memoria, potenza dell’oblio, sfocature narrative, cristallizzazioni e approfondimenti scientifici: in ogni caso, capita che nei suoi film i piani si confondano, complicando ciò che già ci appariva semplice. O semplicissimo. Un po’ come scegliere se accendere o meno una sigaretta o se prendere o meno una certa direzione. Ma lo diceva già Lamarck: il caso non è altro che la nostra ignoranza delle cause.

 

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