I titoli: On connait la chanson (’97), Les Herbes folles (2009), e andando indietro nel tempo, Hiroshima mon amour (’59) che è il suo primo lungometraggio di finzione. Imprevedibili (follemente) non illustrano, non spiegano, scompongono le certezze di un rapporto narrativo lineare, le traiettorie obbligate del senso. L’ultimo film di Alain Resnais, Aimer boire et chanter (altro titolo dentro/fuori un film che è funebre e insieme pieno di gaiezza) ha vinto quest’anno l’ Orso d’argento alla Berlinale per l’innovazione del linguaggio. E niente ci può dire meglio dell’energia di un regista magnifico, inarrestabile sperimentatore a venti come novant’anni – il talento non è questione anagrafica mai – che a ogni film ha saputo mantenere intatta la vitalità delle sue immagini, e l’idea di un cinema in opposizione all’autoritarismo (del regista e delle immagini stesse), per questo sempre politico anche quando parla d’amore.
Aimer boire et chanter
, ispirato alla pièce teatrale di Alan Ayckbourn The life of Riley (in Italia lo distribuisce Teodora film), autore a cui Resnais si era già rivolto per Smoking/No Smoking (’93) e Coeurs (2003), è un capolavoro esistenziale di umorismo e leggerezza pur ruotando intorno alla morte, e al tempo che passa nelle vite trasformandole per sempre. Il paesaggio in cui si muovono i protagonisti – i suoi attori di sempre, Sabine Azema, André Dussolier, e Sandrine Kiberlain e Hyppolite Girardot – è fatto di sfondi e disegni, cartoline che esibiscono la loro finzione. Ma teatralità, animazione, pittura, scrittura, poesia mescolati nei giardini e nelle case, servono a spogliare la macchina cinema nella sua sovrastruttura, liberando il potere dell’immaginario. Non c’è bisogno di verosimiglianza e nemmeno di ricostruzione. Il teatro diviene un mezzo per astrarre, arrivare all’essenza – «Il sole lo detesto è come un proiettore che non si può mai spostare» dirà chiudendo i suoi film in studio.
Al protagonista di Aimer, colui intorno al quale ruota la storia che non vedremo mai, rimangono pochi mesi di vita; la rivelazione scatena improvvisi sussulti nella vita dei vecchi amici. Rimpianti, le scelte, i compromessi, gli innamoramenti che si riaccendono, fiamme vecchie e nuove, i sogni malinconici di una giovinezza che non c’è più. La fuga dalla vita, l’Amore senza orpelli sentimentalistici.
«Occorre trattare l’immaginario nel quotidiano». E ancora: «Mi pongo le stesse domande che pongo allo spettatore … Si tratta di sconfiggere i condizionamenti realistici dell’immagine, di superare il meccanismo dell’identificazione». Vale se si raccontano gli orrori nazisti durante la seconda guerra mondiale (Notte e nebbia), la bomba atomica americana (Hiroshima mon amour), la guerra di Spagna (La guerra è finita, 66), il grande tabù della guerra di Algeria (Muriel). E negli anni a venire la vita e i suoi sbandamenti, un bricolage doloroso e felice in cui lo sguardo si confonde.
Resnais continua a mettere alla prova la relazione tra l’esperienza concreta e l’immateriale artificioso che è nell’immaginario, ma era questa la scommessa di una generazione passata attraverso l’esperienza della seconda guerra mondiale e la crisi della modernitá del ’900, a cui risponderanno col desiderio di cambiare il cinema, vedi la vita. Anche se Resnais dai «Giovani Turchi» della Nouvelle vague rimarrà sempre un po’ distante – il suo nome è legato al Nouveau Cinéma in affinità al Nouveau Roman – lui rive gauche insieme a Marker e Varda, loro rive droite, Godard, Truffaut Rohmer, per rimanere nella leggenda.
Alain Resnais era nato a Vannes, il 3 giugno del 1922, figlio unico di un farmacista, famiglia cattolica, la passione coltivata sin da ragazzino per l’arte. A ventun anni, nel ’43, frequenta i corsi dell’Idhec, alla scuola di cinema creata dal governo di Vichy, i corsi di montaggio, suo strumento primario nella sua reinvenzione degli immaginari. Nel 1950 realizza Guernica, variazione di montaggio sul grido antifascista di Picasso. Qualche anno dopo, nel ’53, insieme all’amico Chris Marker Les statues meurent aussi, riflessione critica sul colonialismo (i testi erano di Marker) sotto agli occhi delle statue africane. Una decontestualizzazione di uso dell’immaginario comune così potente nel rivelare ferocia coloniale e ordinario razzismo, che il film viene censurato fino al ’64. Lo stesso accadrà con Notte e nebbia (’56) nato su commissione per celebrare il decimo anniversario della liberazione dai campi di concentramento. Resnais scompone il rapporto suono, immagine e testo, di Jean Cayrol, un sopravvissuto ai campi di sterminio, e in un paesaggio dall’apparenza neutra, rivela le tracce di una Storia che si vuole confondere nell’oblio. Non solo le versioni ufficiali ma i bordi dell’indicibile, per esempio il collaborazionismo francese, le ombre degli ebrei rinchiusi nel campo di Pithiviers dallo stato francese per essere deportati dai nazisti. La commissione di censura impose il taglio di queste immagini – il film è stato proiettato in Francia tagliato fino al ’97 – mentre il festival di Cannes lo rifiutò, presentandolo fuori concorso solo dopo infinite proteste. Il potere disturbante è ciò che mostra, ma soprattutto il modo di rendere pensiero critico, e una verità non indotta, immagine. Consapevolezza più che propaganda.
Anche Hiroshima mon amour, il primo lungometraggio di Resnais, subirà una ostilità feroce. Sceneggiatura e dialoghi di Marguerite Duras, scandiscono l’incontro amoroso tra un’attrice francese a Hiroshima per girare un film, e un architetto giapponese. Lui le parla di cosa è stata la bomba atomica, lei dell’umiliazione subita in patria perché innamorata di un soldato tedesco (sono Emanuelle Riva e Eiji Okada). Passato e presente si sovrappongono, il flusso di coscienza rompe la narrazione lineare.

Resnais sarà tra i firmatari del manifesto dei 121 contro la guerra in Algeria, al centro di Muriel, il film che segue L’anno scorso a Marienbad, scritto da Robbe Grillet. Muriel ou le temps d’un retour, dove ritroviamo Delphine Seyrig, è un film crudele su un passato e su una borghesia francese avvelenata dai suoi fantasmi. Un uomo che non riesce a liberarsi dal ricordo di una ragazza algerina torturata ma poi scopriremo che in Algeria lui non c’è mai stato.
Il confronto con la storia contemporanea continua nel successivo La guerre est finie (’66) scritto da Semprun, che si ispirava alla sua esperienza personale di militante comunista clandestino nella guerra di Spagna. Poi arriva il ’68, l’anno prima Resnais partecipa al film collettivo Lontano dal Vietnam, ma La guerra è finita segna un punto di passaggio. Anche se questo non significa non essere più nel contemporaneo. Anzi. Resnais è il più politico dei cineasti francesi, insieme a Godard, due percorsi i loro divergenti, Resnais che ama mischiare i linguaggi, alto e basso, la grande storia e le piccole vicende private, Godard alla ricerca del mondo perduto delle immagini.
«Resnais è il solo a filmare la fine della Storia negli anni ’50, e dopo la fine del cinema» scriveva il critico francese Serge Daney. È questo quel punto di passaggio? Eccoci dunque alla fantascienza di Je t’aime je t’aime (’68) così controcorrente nella rivoluzione, poi Stavisky, il grande truffatore (’73), Providence (’77), Mon oncle d’Amérique (’80), La vie est un roman (’83), L’Amour à mort (’84). «Sono sempre angosciato e inquieto» diceva di sé senza perdere però il gusto del rischio.
On connaît la chanson nel ’97 sarà un enorme successo. «Il mio motto è fare sempre quello che mi passa per la testa» diceva Resnais, cineasta considerato dai più difficile e cerebrale. Ma la libertà è un piacere complesso.