Inaugurazione folgorante quella di Torinodanza 2014, con tauberbach, uno spettacolo grande di dimensioni e straziante per le emozioni, presentato da Alain Platel nel gennaio scorso al Kammerspiele di Monaco di Baviera, che lo ha prodotto assieme ai belgi Las Ballets C. de la B. con cui abitualmente l’artista lavora.

È una sorta di grande rito quello che in novanta tesissimi minuti si compie sulla scena di una discarica di rifiuti, in particolare di abiti usati. Anzi bisogna dire che questa spettrale immagine multicolore, che via via passerà dalla ricchezza cromatica al moltiplicarsi di forme di vita al suo interno, rimanda istintivamente alle grandi installazioni che è solito fare Christian Boltanski, teorie di vestiti e balle tessili, in un convento di Palermo o al Grand Palais parigino, performance che spesso sono state definite non a caso «le vite degli altri». Perché, come qui, i vestiti, per quanto sgargianti, sembrano piuttosto i gusci rimasti vuoti di vite che se ne sono fuggite, ma pronte a rinascere. Come fuggita di senno, in mezzo a quegli abiti, sembra la matura clochard che vi si aggira, interloquendo con se stessa, col cielo, e con il peggior vocabolario.

Lei è il perno dell’intera visione di Platel, e del resto l’attrice protagonista (piuttosto importante in Belgio) è colei che al coreografo ha proposto il tema del lavoro: Elsie de Brauw, che ha condiviso con lui un documentario brasiliano di Marcos Prado su una certa Estamira, raccoglitrice di stracci in una megadiscarica carioca. La drammaturgia dello spettacolo si sviluppa così attorno a questa grande vecchia, una sorta di regina di quella corte dei miracoli. I danzatori all’inizio non si vedono neppure, coperti da quei ciaffi. Poi si colgono i primi movimenti, quasi larvali , finché non assumono pienamente la loro fisicità. E i loro movimenti conferiscono mobilità a quella montagna residuale, da cui ognuno può estrarre momentaneamente toilettes o accessori.

E quel loro prendere corpo, se non proprio identità, diviene una sorta di battesimo, in un Giordano di stracci. E nello stesso tempo è iniziazione sessuale, seppure sotto forma di animali, come i danzatori mostrano superando l’amebica informità iniziale (e un ronzare ossessivo di mosche e mosconi che l’amplificazione rende davvero letteralmente terrificanti). Lei continua a sbraitare, in una sorta di esperanto risentito e delirante. E il suo grido, contro il cielo e gli uomini, si frange e si riflette sulla musica, che costituisce l’altro asse portante di tauberbach. Lo stesso titolo viene da una composizione di Artur Zmijewski, la cui Tauber Bach cita appunto le musiche bachiane eseguite da un coro di sordi, che conferiscono alla geometria celeste del compositore tedesco una vibrante capacità di «dirottamento».

C’è molto Bach in questo come in molti altri spettacoli di Platel (uno dei suoi primi si titolava proprio Iets op Bach). E il recente pitié (pasoliniano studio sulla deposizione e le sue moderne forme) respirava e si dilatava proprio sulla Passione secondo Matteo come il Vangelo del poeta di Casarsa. Unica eccezione di rilievo rispetto a Bach, il Terzettino mozartiano dal Così fan tutte. Cantato questa volta dai danzatori stessi, in un coro non di bellurie, ma di struggente e drammatico attaccamento alla vita appena riconquistata, dopo quelle guerre di sesso, di armi e di stracci. È la visione finale, davvero penetrante, che dà il fermo immagine a quella palingenesi, e forse ne è il definitivo epitaffio.

Ma nello stesso tempo è una sferzata allo spettatore affezionato lungo gli anni al genio di Alain Platel. Ancora una volta emerge in questo eccellente «movimentatore» di corpi (lui è notoriamente un autodidatta come coreografo, tecnica cui arrivò creando spettacoli e saggi «terapeutici» per i ragazzi con i quali lavorava come psicopedagogo sui problemi riguardanti dislessia e autismo) la speranza, se non la fede, nel potere salvifico e civile della musica, capace di imporre la convivenza e l’armonia tra gruppi umani diversissimi e di diversa finalità, come i sedici cori della città di Londra (da quello medico assistenziale, al dopolavoristico a quello della comunità gay) nell’indimenticabile Because I sing realizzato e «coreografato» appunto nella capitale inglese.

Dall’altra parte, c’è la sua fede civile, che pur nella ricerca molto avanzata di motivi e tecniche di teatro e di danza, tende incrollabilmente la mano e il cuore, senza alcun pietismo, alla diversità, a chi sta ai margini, a chi ha oltrepassato la soglia del dolore. Fin dai tempi della mitica Bernadetje che scorrazzava sull’autoscontro infelicità giovanili, incapacità degli adulti, leggi del profitto che mangiavano interessi e bambini in una assai vitale «commedia» musicale. Ogni volta partendo dai bordi estremi della società, ma rintracciandovi ogni volta le espressioni più alte della cultura occidentale.

E proprio di questo tipo è la sua ultima sfida, presentata questa estate ad Avignone e in arrivo ora da noi (a Torino tra un mese a conclusione di Torinodanza, poi a Roma e quindi a Bologna). Coup fatal è quello scoccato a Kinshasa, all’ultima tappa della tournée di Pitié: un gruppo di musicisti congolesi ha voluto misurarsi con la Passione di Bach. Una scintilla che poteva risultare scabrosa, ma da cui Platel ha tratto l’anima del suo nuovo lavoro.