«Il mio credo in arte: l’infanzia. Arrivare a renderla senza alcuna puerilità (cfr. Rimbaud), con la sua profondità che giunge ai misteri. Il mio libro futuro sarà forse un perpetuo va-e-vieni insensibile dal sogno alla realtà». Si potrebbe partire dall’illuminante passaggio di questa lettera di Alain-Fournier spedita il 22 agosto 1906 a Jacques Rivière, e da questi inserita nell’articolata introduzione che precede la raccolta postuma Miracles, per tornare a parlare dello straordinario romanzo Le grand Meaulnes che l’autore licenziò nel 1913 da Émile-Paul Frères. Homo unius libri, Alain-Fournier costituisce una meteora nel cielo rutilante delle lettere francesi primonovecentesche, con un retaggio che accantona a malincuore le istanze simboliste (Rimbaud, Laforgue soprattutto) per orientarsi in direzione di un plot narrativo contrassegnato da uno sguardo stupefatto, quasi indifeso, che è suo e solo suo, anche se non disdegna di riconoscersi in alcuni modelli coevi, come quelli di Jammes e Péguy, con i quali condivide un’idea di poetica refrattaria alle vertiginose sperimentazioni del tempo (e con il secondo la morte al fronte, a distanza di diciassette giorni).
Si potrebbe forse correggere il tiro rispetto all’asserzione riportata nell’incipit e sostenere che Alain-Fournier rappresenta lo scrittore che, forse meglio di altri, è riuscito a rendere poeticamente l’idea stessa di adolescenza. Il candore e la crudeltà di questa stagione gli faranno affermare, con presaga lucidità, in una lettera: «Passato il primo ciclo della vita, immaginarsi che sia finita e non sapere come vivere…». Julien Gracq sollecitò, in Lettrines, un ideale confronto con Proust (Du côté de chez Swann uscì nello stesso anno del Meaulnes), mettendo in risalto come il «gusto esclusivo del tardo autunno» che permea le pagine di questo romanzo sui generis si scontri con la sfrontata esuberanza della «piccola banda delle collegiali di Balbec». Si pensi, in tal senso, agli sviluppi che Il grande amico, titolo con il quale venne inaugurata nel 1933 la collana mondadoriana della «Medusa», con traduzione di Enrico Piceni (varie le versioni approntate: da Gramigna alla Banti), ebbe nel nostro paese, anche se in maniera sotterranea, tellurica, mai abbastanza dichiarata, sbilanciandosi sul versante di dinamiche legate al mito fertile dell’adolescenza, assurta a condizione irrevocabile di un’umanità mortificata, disillusa nelle sue ambizioni cronicamente disattese. Non sorprende dunque che Robert Desnos, irriducibile antagonista di ogni espressione passatista, consigliasse dalle pagine di «Aujourd’hui» di leggere un’opera che ci darà l’opportunità di «fare un sogno carico di conseguenze e presagi». L’impianto tradizionale del romanzo non cancella il senso di profonda autenticità che vi si respira («tutto per me è particolare» asserirà emblematicamente l’autore).

La morte prematura a Verdun
La stessa scomparsa prematura, avvenuta l’11 novembre 1914, nei pressi di Verdun, durante una ricognizione compiuta al fine di scontrarsi con i boches voluta dal suo capitano (i suoi resti saranno ritrovati nel ’91 in una fossa comune), non farà che investire lo scrittore di una sorta di aura sacrale, per certi versi affine a quella che delinea i personaggi del suo romanzo. I chiaroscuri in cui si muovono febbrilmente, tra sogno e dissoluzione del sogno, si stemperano in un fondo nebbioso, quasi meduseo, che di lì a poco sconfinerà nel grigiore venato di sangue di un’ubiquitaria barbarie. Alain-Fournier, «ebbro di giovinezza», come lo definisce Rivière, avrà sempre quel profilo efebico che contrassegna le sue foto, lo sguardo ingenuo e smarrito di chi sa che «non si avrà più il tempo». Sullo sfondo il paesaggio multiforme della Sologne, del Berry, un castello magrittiano ante litteram abbarbicato alle nuvole, l’amicizia tra Meaulnes e Seurel, visione complementare di un essere che ritrova nella facilità espressiva «tutto, tutto me».
Risulta quanto mai opportuna la proposta di accogliere, in un volume della prestigiosa collana della Bibliothèque de la Pléiade, Le grand Meaulnes suivi de Choix de lettres, de documents et d’esquisses (Gallimard, pp. XLVI – 572, € 48,00), a cura di Philippe Berthier. Il libro raccoglie la riproposizione del romanzo, il cui manoscritto originale è andato perduto, e un’accurata selezione di lettere e varianti. Se da un lato è ammirevole che si torni a parlare di un autore  che andrebbe rivalutato appieno non si capisce perché non si sia preso in considerazione, in una collana che ha sciorinato a più riprese l’opera omnia di classici, anche in svariati volumi, soltanto il romanzo del 1913, accantonando la miscellanea di Miracles, contenente poesie e prose, uscita nel ’24 (esiste con il titolo Miracoli una versione italiana allestita nel 2010 dalle Edizioni Medusa) che, pur rappresentando una prova acerba sul piano stilistico, rimane pur sempre un documento importante nella formazione dell’autore e uno strumento di comparazione essenziale in ambito filologico. Manca inoltre l’abbozzo a quello che avrebbe dovuto essere il romanzo successivo, Colombe Blanchet, pur commisurato ai suoi esiti inevitabilmente frammentari.

Analogo discorso si potrebbe fare con la scelta delle lettere che appare troppo esigua rispetto alla mole di missive esistenti e compromessa quasi esclusivamente con la stesura del Meaulnes e con gli argomenti a esso rapportati; risulta oltretutto disseminata da una serie infinita di omissioni che, pur concernendo passaggi secondari, non può che inficiare un’adeguata visione d’insieme delle lettere prese in esame. Si deve d’altronde tener presente che il fondo dello scrittore è imponente, in virtù dei suoi 17mila pezzi, elargiti dal nipote, figlio della sorella Isabelle e di Jacques Rivière, alla biblioteca di Quatre-Piliers, a Bourges, nel 2000.

Berthier e la crudeltà del romanzo
La curatela è tuttavia puntigliosa, a cominciare dall’introduzione in cui Berthier assegna alla sœur-veuve un ruolo preponderante nella fortuna ma anche nella «distorsione postuma» di Alain-Fournier: compresa la «ricezione del suo unico libro, diventato un libro unico e soprattutto un libro cristiano, grazie agli sforzi implacabili che la sorella-vedova Isabelle Rivière – come un’altra Isabelle (Rimbaud) o Elisabeth Förster-Nietzsche – non ha cessato fino alla fine della sua vita di perseguire per impostare una versione canonica (e cattolica) dell’opera, escludendo altre interpretazioni». Se la matrice religiosa non è oggettivamente un’invenzione di Isabelle, essendo documentata a più riprese, il curatore rivendica la crudeltà del romanzo; risulta condivisibile il riferimento all’eccessivo trasporto con cui la sorella ha cercato di addomesticare la lettura del Meaulnes nonché di sviare altre forme di esegesi, arrivando a scontrarsi apertamente con Simone, legata sentimentalmente ad Alain-Fournier, riguardo alla supposta trama di Colombe Blanchet.
Sono note le vicende relative alla passione d’antan per Yvonne de Quiévrecourt, sulla quale verrà ricalcato il personaggio di Yvonne de Galais, sorta di vestale sine tempore, di archetipo muliebre angelicato derivante dall’amor cortese di trobadorico lignaggio, non a caso paragonata a Mélisande, con chiaro rimando al Maeterlinck reinventato da Debussy. Viene offerta la versione particolareggiata dei loro platonici incontri in La belle histoire, estrapolata dalle Images d’Alain-Fournier di Isabelle Rivière, quasi una lettura speculare del capitolo La rencontre. Gracq suggerirà la definizione di «sessualità preraffaellita».
Il curatore si sofferma ad analizzare la resa diseguale del Grand Meaulnes, mancante di equilibrio fra le parti. A più riprese si è parlato di lungaggini, tanto che un critico avveduto come Albert Thibaudet sosteneva che la narrazione «ha forse cento pagine di troppo». Concetto ribadito anche da Gide che nel suo Journal dichiara trattarsi «di un libro dal disegno un po’ incerto e i cui più delicati elementi si esauriscono nelle prime cento pagine». Già Rivière aveva rilevato il connubio tra la «letteratura più esoterica, più aristocratica» e le fonti di ispirazione contadina che renderà il segno di Alain-Fournier così vibratile e moderno (Berthier accenna agli influssi pittorici di Eugène Carrière e Maurice Denis), tanto da «far vacillare i paesaggi e gli esseri secondo una certa pulsazione, come amorosa, del suo cuore». L’interessato, consapevole dell’endemico contrasto tra frenesia e pudore, si impadronì da par suo di questa frase di Benjamin Constant: «Forse non sono affatto un essere reale».