L’appuntamento era alle dieci di domenica, prestissimo, l’hangover del sabato sera colpisce anche una cittadina svizzera lacustre come è quella che ospita il Festival Visions du Réel svuotandone le strade ordinate nella luce azzurra del mattino. Ma l’occasione era imperdibile: Alain Cavalier, uno dei grandi registi della storia del cinema a cui Luciano Barisone, nell’ultimo anno della sua direzione del festival, ha dedicato la sezione «Maitre du Réel».

 

 

Definizione «Maestro del reale» forse parziale per Cavalier che ha toccato del cinema tutte le differenti sfumature e modulazioni: dai film con Alain Delon, negli anni Sessanta, come L’Insoumis o con Catherine Deneuve e Michel Piccoli come La Chamade, alle sperimentazioni di Therese, la vita della santa di Lisieux sul volto, le mani, nel respiro dell’attrice (non professionista) Catherine Mouchet, a cui si «incolla» lo sguardo del regista cercando la persona oltre il personaggio. Fino al doppio set in coppia con Vincent Lindon di Pater il suo è un filmare incessante, un’idea che a ogni nuovo passaggio si riformula, si rimodella. È stato proprio ai tempi della Chamade che Cavalier ha capito di «non voler più dare risalto a persone molto belle, molto famose, molto costose»; si è fermato alcuni anni e ha ricominciato con Le plein de super ’(76) – un on the road tra amici – per arrivare alla radicalità di Ce repondeur ne prend pas des messages (’79): il regista alla terza persona di cui era stanco lascia il posto al «filmeur» – anche il titolo del suo film manifesto.

 
All’arrivo nella hall del suo hotel la terribile delusione: Cavalier è già uscito spiega l’imperturbabile receptionist, non ha lasciato alcuna comunicazione, probabilmente dimenticando il nostro appuntamento per inseguire nuove immagini, altre storie – sembra che nei giorni del festival abbia filmato moltissimo…. Non ha il telefonino, non è reperibile, nessuno conosce i suoi passi almeno fino al pomeriggio. L’incontro è già un incontro mancato. Rimane il piacere di vedere i suoi film, la serie inedita Six Portraits XL, e di ascoltarlo parlarne sbirciandolo seduto nelle file un po’ dietro, a destra dello schermo, rivedersi ogni film per scivolare fuori appena prima che si accendano le luci.

 

 

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Six Portraits XL sono sei ritratti, ciascuno un film a sé, pensati all’origine in un formato breve, tredici minuti per la televisione (Arte), poi divenuti di un’ora. Nelle intenzioni di Cavalier sono film per la sala, lui non ama l’idea che vengano visti sul divano di casa passando distrattamente da una cosa all’altra. Li ha realizzati negli anni, molti uniscono immagini del passato e del presente, quello che lui chiama il «bric-à-brac» della vita».
Chi sono i protagonisti dei ritratti? Persone diverse che raccontano una storia diversa con in comune il tratto del tempo che scorre nelle loro vite, nella ritualità del quotidiano, nelle loro ossessioni. Prendiamo Jacquotte: Cavalier accompagna la protagonista, Jacqueline Pouliquen per quindici annui nelle visite alla casa di famiglia, dove è cresciuta, dove vivevano i genitori, i nonni, ora disabitata.

 
Ogni estate, in luglio più o meno, prima delle vacanze, i due arrivano a Chalonnes e Cavalier segue Jacqueline nel suo giro di ispezione: gli armadi, il letto nel quale è nata, gli oggetti, la seta dei divani, gli arredi che la donna accarezza compiendo sempre lo stesso percorso, gli stessi gesti: si ritocca i capelli, respira il profumo delle piante, chiude gli scuri, va via lasciando il tempo dei suoi ricordi sospeso nella casa. Ma il segno degli anni affiora dal declino implacabile delle mura, l’umidità che le penetra, la polvere che corrode, le scale che traballano a ogni visita un po’ di più. Jacquotte indossa sempre un Saint Laurent Rive Gauche azzurro (espediente narrativo?), di vendere non se ne parla ma infine dovrà accettare l’offerta: la vecchia casa sarà suddivisa in appartamenti, la prossima estate non ci sarà più, per sé la donna conserva la parte superiore in cui stipa tutti gli oggetti. Per l’ultima volta, prima di decidere in «comune accordo« di non filmare più, la macchina da presa la segue: tutto è lì, immoto come sempre eppure tutto è diverso. In un terribile restauro «moderno» la casa è un’altra, altre vite vi scorrono mentre la sua rimane chiusa in quella soffitta, un ostinato altrove di malinconia.

 

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Daniel è Daniel Isoppo, attore di cinema, sulle pareti di casa scorgiamo il manifesto di un film di Laurent Achard in cui ha recitato, di teatro, cineasta da giovane. Depressione, istanti di follia, ricoveri: l’appartamento in cui lo conosciamo è quasi una difesa, pieno di oggetti, dischi, libri, le tracce della sua vita, le fotografie dei suoi amori, donne bellissime, la sua solitudine. Prima di uscire Daniel compie una serie di riti infiniti senza imbarazzo davanti alla macchina da presa, si sente che tra lui e Cavalier c’è un rapporto di complicità. E i suoi racconti si incastrano in questi gesti, nel controllo del Rapido (una specie di Gratta&Vinci), nella chiusura di porte e finestre, nei frammenti di un agire che deve essere sotto controllo.

 
Philippe Labro è un giornalista anche scrittore molto noto, Cavalier lo filma mentre prepara il suo programma tv di interviste: precisione, ricerca minuziosa del dettaglio. Poi ci sono i momenti di vuoto, le attese, il pranzo mangiato da solo in ufficio, i ricordi di incontri celebri (Hemingway). Il tempo che lega queste vite affiora anche dalla grana dell’immagine che cambia secondo il supporto usato negli anni: materia del cinema che racchiude il sentimento impercettibile dell’esistenza.