La cinepresa entra nella casa in punta di piedi, segue la signora Jacquotte sulle scale di legno, mentre apre le imposte chiuse da un anno e poi, di stanza in stanza, fino alla soffitta, ripercorre ogni angolo della casa costruita dai nonni e dove lei è nata. Jacquotte è il primo dei sei personaggi che compongono Six Portraits XL che l’86enne Alain Cavalier ha filmato nell’arco di oltre vent’anni e che sono presentati in una sezione a lui dedicata al Filmmaker Festival in corso a Milano (gli ultimi due ritratti, l’attore Bernard e il calzolaio Léon, sono previsti martedì 5 dicembre alle 19 allo Spazio Oberdan).

Come ha scritto Luciano Barisone, che al regista francese ha dedicato la sezione «Maitre du Réel» nello scorso Festival Visions du Réel di Nyon, Alain Cavalier è un cineasta dei corpi, filmati al lavoro e nel corso del tempo. Egli li distingue in due categorie. Da una parte ci sono i corpi «gloriosi» degli attori, che Cavalier conosce bene e ha filmato (fra questi Romy Schneider, Jean-Louis Trintignan, Alain Delon, Léa Massari, Catherine Deneuve, Michel Piccoli, Catherine Mouchet, Louis Becker). Dall’altra ci sono i corpi «innocenti» dei non attori cui il regista si è dedicato soprattutto da Ce repondeur ne prend pas des messages (1979). Secondo Cavalier, il corpo dei non attori è innocente per via di un’intimità che si crea fra il filmante e il filmato e che permette di stare al di fuori di ogni rappresentazione, cosa che non può avvenire con i corpi gloriosi degli attori perché lì prevale la loro intesa diretta, fisica ed erotica con il pubblico. Ma torniamo alla signora Jacquotte. Seguita da Cavalier dal 1995 al 2015, ogni anno, come in un rito, indossa lo stesso abito (Saint-Laurent Rive Gauche, come precisa lei stessa), non sposta una ragnatela né un granello di polvere, ma apre ogni cassetto e scatola.

Lì dentro c’è il suo passato: le numerose pagliette del nonno, gli abiti della nonna, le scarpe da caccia e da passeggio, gli ombrelli bordati di pizzo, i quaderni di scuola della madre, i bicchieri e le porcellane, gli uccelli impagliati, persino le saponette usate a metà che la madre aveva messo da parte per riutilizzarle. Il marito, sebbene cerchi di convincere Jacquotte a trasformare la grande casa in appartamenti, si è rassegnato e ogni volta aspetta che lei finisca il giro dei ricordi leggendo il giornale nella sala polverosa, dice Jacquotte che, dirà poi Cavalier, ha usato la scusa del film per ritardare il più possibile il restauro. Se all’inizio lo spettatore tende a solidarizzare con il buonsenso del marito di Jacquotte, poco a poco parteggia con la maniacalità di lei e condivide la difficoltà di liberarsi di oggetti che, più che essere archeologia dei ricordi, parlano.

Parlano di chi li ha confezionati, scelti, usati, riposti in quell’esatto scaffale, curati. Parlano di eventi (il letto dove è nata Jacquotte, una poesia scritta da sua madre bambina), dei momenti trascorsi insieme (la poltrona foderata di seta, il lillà in giardino), di consuetudini scomparse (il pitale del nonno), di spazi vissuti (i camini alla parigina e i divani). Quando il restauro avverrà e le macilente carte da parati saranno sostituite da pittura bianca, i camini abbattuti, i pavimenti cambiati, le maioliche blu della cucina sostituite da armadietti in truciolato si è tentati di gridare a Jacquotte: «Perché hai ceduto?» Lì capisci che Cavalier ha rappresentato l’attaccamento al simbolico che c’è in ognuno di noi, e che in ognuno di noi c’è un corpo innocente.

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