[/CITTA]A Natale, nel villaggio di Al Walaje, sotto l’albero non ci sono regali ma l’ennesimo furto. Sotto forma di strada. Il progetto israeliano prevede la confisca di altri appezzamenti agricoli di proprietà delle famiglie palestinesi di una comunità che negli anni ha subito continue appropriazioni: oggi, del territorio di Al Walaje, non resta che un misero 14%.
Israele mette le mani avanti: la strada servirà a collegare a Gerusalemme il monastero di Cremisan, nel villaggio di Beit Jala, a pochi chilometri da Betlemme. Diversa l’opinione degli attivisti: si tratta dell’ennesima forma di colonizzazione. La strada, infatti – se venisse davvero costruita per servire i monaci di Cremisan, noto per la produzione di vino nella sua secolare cantina – dovrebbe procedere in linea retta. Al contrario, una grossa curva entra prepotentemente nei terreni coltivati, rendendo così «obbligatoria» la confisca di decine di ulivi.
Una storia che si ripete e lo strumento è tristemente noto: il Muro di Separazione, in costruzione nelle terre delle due comunità e del monastero salesiano. «Con la costruzione della barriera, Israele taglierà in due le terre di Cremisan, metà resteranno in Cisgiordania e metà sul lato israeliano – ci spiega George Abu Eid, giovane attivista di Beit Jala – Israele confischerà 55 dunam di terre (un dunam è pari a mille m², ndr). L’obiettivo è collegare le tre colonie che circondano Beit Jala e Al Walaje: Gilo, Har Gilo e Givat Hamatos. Il Muro che parte da Gilo circonderà Al Walaje, arriverà fino a Cremisan e si ricongiungerà con la barriera a Betlemme. I 55 dunam di terre appartengono a 58 famiglie di Beit Jala, che perderanno così l’accesso ai propri uliveti e alla principale entrata economica». A rischio, oltre agli alberi di ulivo, anche la pineta tra Beit Jala ad Al Walaje e diventata simbolo della lotta del villaggio cristiano di Beit Jala e del monastero salesiano contro le politiche di colonizzazione: ogni venerdì gli abitanti si ritrovano qui per pregare, un modo per rivendicare la proprietà della terra. Succederà anche a Natale, per non arrendersi: «Noi continuiamo a lottare con ogni mezzo per avere giustizia – continua George – Esistere sulla propria terra significa resistere, anche con la preghiera. Trovandoci qui, insieme, a Natale e ogni venerdì mandiamo un messaggio: noi restiamo qua».
Un altro Natale sotto occupazione quello che attende Beit Jala. Il villaggio, 15mila anime, è diviso in due dal 1994, anno degli Accordi di Oslo: il 35% si trova in Area A (sotto il controllo civile e militare palestinese) e il 65% è in Area C (sotto totale controllo israeliano). Dal 1967, anno di inizio dell’occupazione militare della Cisgiordania, Israele ha confiscato 22mila dunam di terre nell’intero governatorato di Betlemme: 18mila sono stati annessi al Comune di Gerusalemme, 4mila per la costruzione del Muro. Annessione significa costruzione di colonie: sono 22 gli insediamenti israeliani nel governatorato di Betlemme.
Per l’Onu solo il 13% del territorio originario di Betlemme è oggi a disposizione della popolazione palestinese. Statistiche che gettano una luce ancora più tetra sugli attuali negoziati in corso tra Anp e Stato di Israele: 30 checkpoint e blocchi stradali, colonie e confische di terre hanno un effetto distruttivo sull’economia del governatorato. Il settore turistico – una delle principali fonti di entrata economica del distretto – resta nel drammatico limbo del non-sviluppo per le restrizioni israeliane.
George, da Beit Jala, alza la voce anche contro la leadership palestinese, colpevole di una pericolosa passività che rende il processo di pace l’ennesima resa alle richieste israeliane: «Gli attuali leader, figli degli accordi di Oslo, sono incapaci di individuare nuove strategie. Accettano una modifica dopo l’altra, mentre le colonie crescono».
La soluzione per Beit Jala, Al Walaje, il vino di Cremisan e l’intera Palestina, per il giovane George, è l’educazione delle nuove generazioni: «Dobbiamo insegnare ai giovani a comprendere le esperienze di resistenza di altri Paesi sotto occupazione».