La sua sparizione era stata denunciata da Amnesty International Nord Africa: Mohamed al-Qasas, leader del partito di opposizione Misr al-Qawia (Egitto Forte), è stato prelevato dalla polizia giovedì notte nel quartiere Azhar al Cairo.

La terza sparizione forzata in una settimana, dopo quella dei due giovani giornalisti Mustafa al-Assar e Hassan al-Banna, e giunta a due settimane dalla chiamata collettiva al boicottaggio delle elezioni da parte delle opposizioni egiziane.

Venerdì è stato interrogato senza legale, fa sapere Mohamed Osman, membro della segreteria del partito, visto che nessuno sapeva dove si trovasse. Il suo caso rientrerebbe nella più vasta inchiesta, nota come 977/2017, che vede imputati blogger, giornalisti, attivisti politici, tutti accusati di legami con i Fratelli Musulmani.

Ieri di al-Qassas sono giunte notizie certe: la procura di Stato ha ordinato 15 giorni di detenzione con l’accusa di far parte della Fratellanza Musulmana (dunque, per il Cairo, di un gruppo terroristico) e di daver diffuso notizie false per impedire il funzionamento dello Stato e turbare la pace sociale.

Ma la pace sociale nell’Egitto del post golpe è utopia. Lo sanno bene le comunità della Penisola del Sinai, strutturalmente marginalizzate dallo Stato centrale, da anni oggetto di brutali campagne anti-terrorismo e da ieri letteralmente prigioniere della maxi operazione «Sinai 2018».

Lanciata giovedì dall’esercito egiziano, con il dispiegamento di truppe e unità speciali nel nord del Sinai (e in contemporanea nel resto delle città egiziane e lungo le direttrici che le collegano), è entrata nel vivo venerdì con i primi bombardamenti.

Che sono proseguiti ieri: l’obiettivo, dicono i vertici militari, sono i gruppi islamisti radicali (alcuni affiliati allo Stato Islamico) che negli ultimi anni sono cresciuti e si sono radicati nella zona, spingendo le proprie cellule verso le città della costa e commettendo attentati contro la popolazione civile.

I raid aerei avrebbero colpito magazzini e aree di supporto logistico, ma anche i centri abitati: l’esercito, con l’appoggio della polizia, sta compiendo perquisizioni casa per casa. E ha sigillato la Penisola. Da giovedì non si entra e non si esce, le scuole sono chiuse (come le università) fino a nuovo ordine, alle stazioni di benzina è stato ordinato di chiudere.

I cittadini vivono nel terrore: l’invio di altri medici, infermieri, sacche di sangue, medicinali agli ospedali della zona fanno temere il peggio, una paura amplificata dall’assenza di informazioni. Nessuno sa cosa fare e nel dubbio le famiglie hanno affollato i supermercati per fare scorta di viveri. Internet è sospeso, le linee telefoniche utilizzabili a singhiozzo.

I primi arresti si sono già registrati, sebbene Il Cairo non dia numeri. A denunciarli sono i residenti che parlano di violente perquisizioni nelle case. E mentre la marina militare si schiera lungo le coste orientali, è impedito l’accesso alle strade di collegamento tra Rafah, Arish e Sheikh Zuwayed.

Serrato anche il confine con Gaza, il valico di Rafah, che aveva riaperto tre giorni fa: centinaia di palestinesi (tra cui studenti, lavoratori, malati) che erano riusciti finalmente ad attraversarlo legalmente sono stati rispediti indietro.

L’offensiva preoccupa. Per il contesto in cui avviene (una campagna anti-terrorismo che serve al regime per accreditarsi agli occhi dell’Occidente e dei donatori internazionali) e per le premesse: se da qualche giorno, in sordina, i dintorni dell’aeroporto di Arish sono interessati da demolizioni di case e uliveti e sfollamento di migliaia di persone per creare una zona cuscinetto anti-islamista, da anni il Sinai è vittima di una politica repressiva che, travestita da campagna militare anti-jihadista, si è tradotta in abusi, arresti arbitrari, restrizione della libertà di movimento dei civili.