È uno dei tanti supermercati a conduzione familiare che, nei pressi del campo profughi di al Amari, affollano la periferia sud di Ramallah, nel punto dove si congiunge con la municipalità di al Bireh. I proprietari non hanno ancora rimosso dagli scaffali i prodotti delle sei industrie alimentari israeliane – Prigat, Elite, Strauss, Tnuva, Osem e Tabor – indicate dall’Autorità nazionale palestinese come oggetto di un boicottaggio totale a partire da oggi. Lo faranno presto garantisce il cassiere, Abu Khader. «Abbiamo sempre cercato di privilegiare le merci palestinesi perciò non abbiamo difficoltà ad aderire al boicottaggio e spero che presto venga allargato a tanti altri prodotti», ci dice. «Tuttavia – aggiunge – non sempre esistono delle alternative palestinesi alle produzioni israeliane e non sarà facile portarlo avanti». Il figlio annuisce e da parte sua sottolinea che «i generi alimentari (israeliani) sono sostituibili, almeno in parte, a differenza di altri prodotti. Il boicottaggio perciò rischia di rivelarsi poco efficace perchè limitato alle cose che si mangiano e si bevono». In altri supermercati e botteghe qualcuno ha attaccato ai prodotti delle sei industrie adesivi che spiegano ai clienti che il 16% di quanto pagheranno andrà al budget delle forze armate israeliane.

 

Le sei industrie prese di mira, veri e propri colossi, esportano ogni anno nei Territori occupati palestinesi per centinaia di milioni di dollari. Il loro boicottaggio è la risposta alla decisione presa dal governo Netanyahu di bloccare il trasferimento di 200 milioni di dollari palestinesi, generati da tasse e dazi doganali, come rappresaglia per la decisione di Abu Mazen e dell’Olp di chiedere l’adesione della Palestina alla Corte Penale Internazionale. I commercianti palestinesi hanno due settimane di tempo per smaltire i prodotti israeliani. Poi arriveranno gli ispettori dell’Anp per i controlli. Coloro che non rispetteranno il provvedimento saranno multati. Tra i negozianti non manca chi scuote la testa. Come Abu Firas, proprietario di un alimentari a due passi dal mercato ortofrutticolo di Ramallah. «Il boicottaggio è giusto – premette – , però non mi fido dell’Anp. Non è la prima volta che ci chiede di rinunciare alle merci israeliane e poi revoca il provvedimento prima che faccia pieno effetto. Sapete come finisce? Che ci rimettono solo i commercianti». Abu Firas sostiene che quando scatta il boicottaggio dei prodotti israeliani, gli industriali palestinesi alzano il prezzo delle loro merci, colpendo consumatori e commercianti. «La polizia dovrebbe impedire queste speculazioni ma non fa nulla», si lamenta il negoziante.

 

La maggioranza della popolazione palestinese appoggia l’appello al nuovo boicottaggio, nella speranza che non si riveli una bolla di sapone come nel 2010 e nel 2012. In quelle occasioni, governava l’ex premier Salam Fayyad, l’Anp annunciò la “linea dura” contro le merci prodotte nelle colonie israeliane e vendute in Cisgiordania, un affare annuale da 500 milioni di dollari. Fu lanciata anche una campagna di sensibilizzazione (al Karamah) tra la gente, con centinaia di giovani che consegnarono a migliaia di famiglie documenti sulle colonie e la loro pericolosità per le aspirazioni palestinesi. Esponenti del governo dell’Anp si fecero riprendere dalle tv locali mentre davano fuoco a cataste di prodotti israeliani. Il boicottaggio colpì nel segno e le proteste del governo Netanyahu furono veementi. Poi all’improvviso, senza alcun motivo (se non le pressioni degli Stati Uniti), l’Anp mise fine al boicottaggio dopo poche settimane dal suo annuncio. Le possibilità di un esito simile sono elevate anche questa volta.

 

La campagna che parte oggi è contemporanea all’infuocato scontro nei social network, su di un’altra forma di boicottaggio di Israele, avvenuto tra due giganti del rock progressivo degli anni 70, Alan Parsons e Roger Waters. Il leader degli Alan Parsons Project ha respinto seccamente l’appello del frontman dei Pink Floyd a rinunciare al concerto a Tel Aviv. «Mi spiace che tu abbia scelto, almeno in questa occasione, di far parte di quella minoranza di artisti e accademici che sostengono le politiche del governo israeliano in carica», ha scritto Waters, da diversi anni schierato a sostegno dei diritti dei palestinesi e a favore della campagna internazionale BDS (Boycott, Divestment, Sanctions) nei confronti di Israele. «Questo è un problema politico e io sono semplicemente un artista…la musica non conosce confini, nemmeno io», ha replicato Parsons. Qualcuno in rete, commentando le parole di Parsons, ha osservato che la musica comunque non farebbe fatica ad attraversare i confini dello Stato di Palestina, perchè non è mai nato e resta sotto occupazione israeliana.