Nella giornata di ieri, con la consueta puntualità provocatoria, la Corea del Nord ha portato a termine l’ennesimo test balistico, facendo infrangere nelle acque del Mar di Giappone a 60 km dalle coste sudcoreane un missile a gittata di medio raggio. Una premura, come se ce ne fosse stato il bisogno, usata per ricordare a Xi Jinping e a Donald Trump la presenza, in Asia Orientale, di una questione nordcoreana che sarà al centro del meeting di oggi e domani tra i leader delle due principali potenze mondiali contemporanee.

LA DUE GIORNI DI MAR-A-LAGO – il resort in Florida prediletto da Trump per incontri dove si vuole andare al sodo, senza i salamelecchi dell’etichetta istituzionale di Washington – sarà la prima occasione per un faccia a faccia di portata storica ricco di variabili al momento imperscrutabili. I cinesi lo avevano palesato in tempi non sospetti, quando ancora l’idea di The Donald alla Casa Bianca sembrava uno stratagemma comunicativo per mettere un po’ di pepe in elezioni altrimenti segnate: l’opzione Clinton la leadership cinese in fondo l’avrebbe preferita, trovandosi più a suo agio nell’affrontare un avversario duro ma conosciuto rispetto a una relazione bilaterale fumosa e inafferrabile come quella di Trump. Oggi, invece, in Florida sarà l’occasione per svelare l’ignoto e iniziare a decifrare che tipo di rapporto segnerà il futuro di una Cina determinata a consolidare la propria ascesa nella comunità internazionale globalizzata, e degli Stati Uniti del «Make America Great Again», ripiegati su protezionismo e nazionalismo in salsa mercantilista. Due posizioni evidentemente inconciliabili, come si prospettano inconciliabili le personalità dirompenti di Trump e Xi, leader a loro modo accentratori e poco inclini alle smussature della diplomazia internazionale.

L’APPROCCIO CINESE al meeting, secondo la stampa nazionale, sarà cauto, forte del vantaggio oggettivo di sedersi a un tavolo dove Pechino ha poche richieste da fare, mentre Trump – in cerca di risultati anche apparenti da mostrare alla propria opinione pubblica – sarà costretto a un ruolo che detesta: quello del debole.

SULLA COREA DEL NORD, ad esempio, dalle pagine del Global Times – quotidiano cinese in lingua inglese solitamente sulle posizioni dei falchi del Partito comunista cinese – arriva un vademecum molto schietto. Se gli Usa vogliono normalizzare la situazione a Pyongyang, non devono far altro che diminuire la propria influenza nell’area e lasciare che la Cina gestisca i suoi rapporti incrociati tra Corea del Nord, Corea del Sud e Giappone, di fatto mandando in pensione il Pivot to Asia cifra della politica estera di Obama. L’interventismo in Corea del Nord minacciato da Trump, per contro, porterebbe a conseguenze devastanti per la stabilità e se c’è una cosa che la Cina non sopporta è proprio l’instabilità, il caos, ciò che sfugge alle previsioni.

 

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Il presidente cinese Xi Jinping

 

Sul lato commerciale, a Xi Jinping sarà chiesto di arginare il deficit sofferto da Washington nella bilancia degli scambi con Pechino, al momento stimato intorno a 1,4 trilioni di dollari complessivi dal 2013 a oggi: fermare l’emorragia di denaro imputata al dumping cinese è stato uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale di Trump che, d’altra parte, vorrà cercare di attirare negli Usa investimenti cinesi ingenti per sostenere la creazione di nuovi posti di lavoro.

CONCESSIONI CHE XI JINPING sarebbe pronto a fare a patto di incassare l’impegno statunitense nel non interferire in «questioni nazionali» come Tibet, Hong Kong e Taiwan, fino al sostegno del grande progetto simbolo dell’era Xi, la Nuova Via della Seta a tutti gli effetti unica rete commerciale transnazionale di respiro intercontinentale dopo lo stop, voluto proprio da Trump, del Tpp.

Il tutto, suggerisce l’agenzia di stampa Xinhua, all’insegna della collaborazione e del mutuo beneficio di due paesi che «dovrebbero fare di più che badare solo ai propri interessi nazionali». L’antitesi insomma di «Make America Great Again»: per Trump forse un rospo troppo grande da ingoiare.