New York, 1976. Questa sera, al CGGB’s, ci saranno loro: i Ramones. Suoneranno duro e veloce (come al solito), contribuendo alla leggenda di quel locale che di leggende ne vedrà passare tante (vi dicono niente i nomi di Talking Heads, Television e Blondie?). Proprio lì, in mezzo alla folla, un tizio più degli altri rimarrà colpito da quelle canzoni. Il suo nome è Rhys Chatham, destinato a diventare eccellente chitarrista nonché tramite tra due movimenti tipici della New York della fine degli anni ’70, la scuola di compositori di Downtown e l’ondata della No Wave, sviluppando negli anni un personale linguaggio, in cui la musica d’avanguardia e il rock si mescolano e confondono…

Rhys, da dove nasce il tuo amore per le chitarre elettriche?

Sai, sono cresciuto studiando con il minimalista La Monte Young e con quel genietto dell’elettronica di Morton Subtonick. Poi ho fatto di tutto: ho suonato il piano alla maniera di John Cage, ho cantato per il Theater Of Eternal Music (insieme a Jon Hassell!) e ho imparato ad amare la musica di Terry Riley. Ma soprattutto ho «trafficato» con i primi sintetizzatori cosiddetti modulari: i Buchla Serie 100. Questo il mio background. In realtà, già allora ero ben preso dal discorso armoniche e ipertoni (le chitarre elettriche ne hanno a tonnellate) e dopo aver strimpellato per un po’ in alcuni gruppi rock, riuscii finalmente a comporre un lavoro che mi rappresentasse al 100%. Titolo: Guitar Trio. Era il 1977 e lo presentai per la prima volta al Max’s Kansas City di New York. Non sapevo mica se sarebbe piaciuto… Invece è stato un successo!

Two Gongs è una delle tue prime cose che più ci piace. Che storia ha questa composizione?

Lavoravo come accordatore per una compagnia che affittava pianoforti e harpsichord. Erano i primi anni Settanta. Nel negozio c’erano due grandi gong cinesi e io presi a suonarli quasi per scherzo. Poi la compagnia me li regalò e cominciai a utilizzarli in concerto. Erano ipnotici. Tanto che nel 1982, in un pezzo per quattro chitarre dal titolo Drastic Classicism, scoprii che con certe accordature dissonanti potevo quasi replicarne il sound. Pensa un po’: quattro chitarre che suonano come due gong. Pazzesco, no?

1981, Noise Fest. A quell’evento erano presenti decine di gruppi che hanno fatto la storia della musica newyorchese. Che ricordo ne hai?

Ne ho ricordi piuttosto confusi, a dire il vero. Comunque c’erano tutte le band che Brian Eno incluse tre anni prima nella seminale compilation No New York, tipo i Teenage Jesus And The Jerks di Lydia Lunch, i Mars, i Contortions ecc. Ovviamente suonai anche io quella volta, col mio gruppo di allora: i Tone Death.

Lou Reed è passato da poco a miglior vita, vorremo ci regalassi un suo ricordo…

Oh, Lou… Ero in Irlanda, stavo preparando il mio show per il festival Hunters Moon, quando ho saputo della sua morte. Una cosa straziante, davvero. Quella sera chiesi alla gente lì presente di pregare assieme a me la dea Luna, affinché aprisse un varco per Lou verso il Cielo. Bizzarro: quello è stato il primo (ma temo rimarrà anche l’unico) «sing-along show» della mia vita. Tornando a Reed: le sue canzoni e la sua attitudine d’artista hanno fatto e continueranno a fare scuola.

È dal 1988 che ormai vivi a Parigi, cosa ti ha spinto fin laggiù?

L’amore. Ho sposato una coreografa francese che ho conosciuto a New York, e l’ho seguita nel Vecchio Continente. Lei voleva a tutti i costi lavorare nel modo della danza, che verso la fine degli anni ’80 stava conoscendo una rinascita proprio a Parigi. Sembrerà strano quanto sto per dire, ma ormai sento di avere messo delle vere radici in Francia. La Francia è la mia casa, senza ombra di dubbio.

Un’ultima domanda: sei soddisfatto di «Harmonie du soir», il cd appena pubblicato dalla Northern Spy?

Ho lavorato per anni e anni su pezzi da 100 chitarre e oltre. Eppure, non mi sono mai stancato di questo strumento. Stavolta mi cimento in un lavoro per «sole» sei chitarre (basso+batteria). Non tornavo a questo tipo di formazione perlomeno dal 1990 e sono felice di averlo fatto. L’occasione me l’ha offerta il museo parigino Palais de Tokyo, commissionandomi Harmonie du soir. Strana coincidenza: proprio nell’estate del 2011, quindi un bel po’ prima che il museo mi chiamasse, io stesso avevo intrapreso la scrittura di un pezzo chitarristico a sei. Da quel tentativo, pian piano, prese forma proprio Harmonie du soir (ispirata dal poeta Charles Baudelaire).