Se la formula che Sundance ha promosso in America e nel mondo per tutti questi anni è quella di un cinema indipendente molto scritto, drammaticamente risolto, recitato convenzionalmente e fatto di storie dal raggio non particolarmente ambizioso, i film migliori che si stanno vedendo quest’anno al festival sembrano essere quelli che, in qualche modo, fanno esplodere quelle sicurezze. Primo fra tutti Boyhood, il bellissimo nuovo lavoro di Richard Linklater presentato in anteprima qui a Park City e tra qualche settimana previsto in concorso alla Berlinale (6-16 febbraio).

Fin dal lungometraggio d’esordio, Slacker, Linklater ha fatto del tempo una delle ossessioni del suo cinema, sempre instancabilmente a caccia della realtà che «sborda» tra un’inquadratura, quella che la precede e quella successiva, tra le parole dei dialoghi fiume che usa così spesso, nel rifiuto di ingabbiare convenzionalmente le sue storie entro i confini dello schermo, di un genere, della dicotomia documentario /fiction.

In Slacker, Dazed and Confused e Waking Life Linklater aveva lavorato su un’idea sospesa, sincronica del tempo. La trilogia Before Dawn (Prima dell’alba), Before Sunset (Prima del tramonto) e Before MidnightPrima di mezzanotte, gli ha permesso di esplorarlo anche nel suo svolgersi, contemporaneamente fuori e dentro allo schermo. Girato in 39 giorni, distribuiti nell’arco di 12 anni, Boyhood spinge ancora più in là questo esperimento. Diversamente da Michael Apted che, nella sua serie di documentari Up (sette episodi, tra il 1964 e il 2005) ogni sette anni intervistava i suoi 14 protagonisti, Linklater si è riunito con il suo cast e troupe ogni anno, per qualche giorno di riprese, in cui il passare del tempo veniva incorporato organicamente nella sceneggiatura del film (anch’essa firmata dal regista).

Al centro di Boyhood, come suggerisce il titolo, sono l’infanzia e l’adolescenza di un bambino texano, e la sua famiglia. Complici nel progetto Ethan Hawke e Patricia Arquette, il giovane attore Ellan Coltrane e la figlia del regista, Lorelei Linklater. Incontriamo Mason (Coltrane) per la prima volta a sette anni. Il suo mondo è fatto di una madre che si chiama Olivia (Arquette), affaticata e desiderosa di una vita migliore, di Samantha, una sorella maggiore che lo snobba (Linklater), e di un padre simpatico e completamente inaffidabile (Hawke) che vuole recuperare il rapporto con i figli dopo anni che non vive più con loro e li vede pochissimo.

I piccoli scazzi a scuola, i momenti di contemplazione/confusione solitaria, la corse in bicicletta, il dolore di lasciare indietro gli amici, l’universo conosciuto, quando la mamma decide di impacchettare tutto e trasferirsi a Houston, dove vuole studiare psicologia e trovare un lavoro meglio pagato e più interessante.

Linklater tratteggia il quotidiano di Mason e dei suoi a pennellate sicure e prive di sentimentalismo. Nel suo sguardo si sente l’amore per Truffaut, ma filtrato da un pudore, quasi un’austerità che sono molto made in Usa. Non sorprende infatti che tra i fan dichiarati di questo regista ci sia anche Fred Wiseman.

Ogni volta che reincontriamo la famiglia dopo un certo lasso di tempo, i personaggi sono sempre leggermente diversi – più maturi o problematici i ragazzini, più sicura di sé la madre, più addomesticabile Mason Sr. che torna dall’Alaska a bordo di un’auto sportiva nera che fa molto «giovane» e va a vivere a Houston anche lui. Amanti e fidanzati/e dei genitori si succedono, prima o dopo arriveranno anche i primi flirt dei ragazzi. Quando Olivia, diventata professore d’università, trova un uomo decente lo sposa, ma poi lui si rivela pessimo e la famiglia si restringe, per poi riallargarsi, di nuovo. Intorno ai personaggi che vanno e vengono, si intravedono con la coda dell’occhio Harry Potter, la guerra in Iraq, i gadget che cambiano, la campagna presidenziale 2008 in cui Mason Senior e Junior disseminano cartelli «vota Obama» nel territorio ostile di Karl Rove e George W. Bush.

Linklater si muove tra una nuova realtà e l’altra senza bisogno di spiegazioni, psicologismi. Confonde i riti di passaggio obbligati del romanzo di formazione alla banalità di tutti i giorni. La sua è un’aderenza totale al flusso della vita così come viene, perché in essa non c’è niente di ordinato, prevedibile, sicuro, «We just wing it», improvvisiamo andando avanti, spiega ridendo al figlio Mason Sr. verso la fine del film, quando ha ceduto la macchina sportiva per un minivan, ha messo su famiglia anche lui e tollera due suoceri iperconservatori ma gentilissimi. È diventato, insomma, l’uomo responsabile che Olivia avrebbe voluto – solo quindici anni troppo tardi.

Se i corpi e i volti di Arquette e Hawke riflettono, con dolce malinconia, il passare degli anni, quella di Mason è una metamorfosi che ti scorre davanti agli occhi. Cuore e guida del film, sboccerà, quando stiamo per lasciarlo, a diciannove anni, in un classico personaggio «alla» Linklater, acuto, introspettivo e loquace. Girato in 35mm (è la tendenza controtendenza del meglio di Sundance 2014), prodotto completamente al buio dalla Ifc che accettò di finanziare la spericolata impresa 12 anni fa, Boyhood dura quasi tre ore, ma si vive come un film stringatissimo, essenziale. Non ha nulla della slabbratezza che spesso si deduce dal basso costo di girare in digitale.

E in questa sua disciplina completamente libera e specialissima stanno il punto di partenza e di arrivo di tutto quello che Richard Linklater ha fatto fino ad oggi.