Un girone dantesco. Solo così si possono descrivere le scene viste ieri e, soprattutto mercoledì, durante le poche ore in cui, dopo ben 85 giorni di chiusura, il regime di Abdel Fattah al Sisi ha riaperto il valico di Rafah con Gaza. Donne anziane gravemente ammalate che agitavano i referti medici sperando di commuovere le guardie di frontiera. Studenti che tentavano invano di mostrare i documenti attestanti l’iscrizione ad università egiziana o di un altro Paese. Persone ammassate come bestie che imploravano un po’ di comprensione. Ad un certo un ammalato di cancro si è gettato a terra e, strisciando, ha invano chiesto agli egiziani di lasciarlo passare. A Rafah nei passati due giorni si è vista l’umanità disperata della Striscia di Gaza da dieci anni stretta nell’assedio israelo-egiziano e sempre di più ignorata dal mondo. Di Gaza si parla solo quando divampa lo scontro militare tra Israele e Hamas.

«Avevo chiesto un permesso per andare a Gerusalemme Est a curarmi all’ospedale Augusta Victoria (dell’Onu, ndr) ma non ho mai ottenuto il permesso da Israele, ora la mia unica possibilità è raggiungere il Cairo», raccontava mercoledì la 50enne Wafa Abu Nukira, con un tumore, ad un sito d’informazione locale, in attesa assieme agli altri 30 mila palestinesi che avevano presentato la richiesta di uscire dalla Striscia per motivi di salute, di studio, di famiglia o per affari. «Ogni nazione riconosce il diritto alle cure mediche, soprattutto per gli ammalati di cancro, ma questo non vale per noi di Gaza. I nostri malati gravi non godono di alcuna priorità», ha aggiunto con amarezza il marito Osama. «È catastrofico che Israele tenga chiuso il valico (di Erez) ma è una catastrofe ancora più grande quando a mantenere chiusi i confini è l’Egitto», ha commentato l’uomo. Come dargli torto. L’Egitto, come il resto dei Paesi arabi, si proclama sostenitore dei diritti dei palestinesi. Ma sono soltanto slogan, parole vuote. Naturalmente chi ha santi in paradiso, ossia al ministero dell’interno al Cairo, o la possibilità di pagare sotto il tavolo qualche funzionario egiziano del terminal di Rafah, ha qualche speranza di transitare non appena apre il valico, senza aspettare il proprio turno per ore e ore, con altre migliaia di persone.

Sono decine di migliaia i palestinesi di Gaza in lista di attesa. Un numero molto elevato figlio del periodo di chiusura più lungo di Rafah deciso sino ad oggi dalle autorità egiziane. Nel 2015 il valico è rimasto sigillato per 344 giorni e dall’ottobre 2014 sino ad oggi ha aperto solo 42 giorni. È una rappresaglia contro Hamas, accusato dal Cairo di collaborare con i gruppi affiliati allo Stato Islamico che nel Sinai combattono contro l’esercito governativo. Accusa che il movimento islamico palestinese ha sempre respinto, senza riuscire a persuadere il regime di al Sisi. Comunque sia, pagano civili innocenti. Mercoledì sono stati fatti transitare solo 443 palestinesi, tutti in possesso del passaporto egiziano, quindi per motivi di «riunificazione familiare». Il numero di transiti di ieri in serata non era ancora noto.

Da tre anni a questa parte, dopo il colpo di stato militare al Cairo, il blocco di Gaza attuato dal regime di al Sisi per certi aspetti è persino più ferreo di quello praticato da Israele. Se dal valico di Erez per Israele i palestinesi passano con il contagocce da quello di Rafah ormai è possibile transitare ogni due-tre mesi e solo per un paio di giorni. Le conseguenze sono devastanti, in particolare per chi non può curarsi nella Striscia dove gli ospedali non sono in grado di garantire l’assistenza ai malati con le patologie più gravi. Di fronte a ciò restano inerti i governi dell’Anp a Ramallah e quello di Hamas a Gaza. L’esecutivo nominato da Abu Mazen evita di rivolgere la più piccola critica all’alleato al Sisi che tiene sotto pressione Hamas. Il governo islamico guidato da Ismail Haniyeh tiene la bocca chiusa nel velletario tentativo di riconquistare la fiducia del regime egiziano impegnato in una lotta senza quartiere contro i Fratelli Musulmani, (l’organizzazione-madre di Hamas) proclamati “terroristi” dopo il golpe di tre anni fa.