Oggi piazza Tahrir, culla della rivoluzione egiziana del 2011, è quasi irriconoscibile. Sembra una delle innumerevoli rotonde del Cairo. La piazza è un cantiere a cielo aperto.

UNA RECINZIONE GIALLA copre la vista dei passanti dai lavori in corso. Da una piccola apertura si vedono dozzine di operai chini a lavorare guidati da ingegneri e capicantiere. «Stanno costruendo un obelisco sulla rotonda», ci dice Ahmed (nome fittizio per motivi di sicurezza), uno dei tanti giovani egiziani che hanno partecipato, come studente, alle proteste di piazza Tahrir di nove anni fa.

È più di una casualità che il periodo dei lavori coincida con quello dell’anniversario della rivoluzione del 25 gennaio 2011. Riempire la piazza di militari che controllano i lavori dissuade ogni intento di manifestazione. Camion e trattori fanno avanti e indietro dal sito dei lavori, i vigili dirigono il traffico verso le arterie laterali.

Gli uomini del Mukhabarat, i servizi segreti egiziani, sono riconoscibili, molti indossano giacche di pelle di colore nero. Scrutano ogni pedone e automobile che passa di lì, aiutati dalle decine di telecamere che sorvegliano l’intera zona. Non si possono fare foto, un giovane egiziano ha addirittura una reflex poggiata su un cavalletto. Dopo qualche rapido scatto è costretto a fuggire di corsa perdendosi nel traffico. Ogni gruppo di persone che può risultare minaccioso alle autorità viene fermato e arrestato.

È VIETATA QUALSIASI FORMA di protesta. Tuttavia, il ricordo dei giorni rivoluzionari è ancora vivo: «Questo Kfc lo avevamo usato come ospedale, soccorrevamo i feriti», dice Ahmed indicando la saracinesca del fast food americano che si affaccia sulla piazza. Li ricorda bene quei giorni, di feriti ce ne sono stati migliaia (circa 6mila) e i martiri (così vengono definite le vittime di quella primavera araba), secondo i dati ufficiali, sono stati almeno 846.

Perdite che nonostante tutto non sono state vane secondo Ahmed: «Il risultato più importante di quei giorni è che ora chiunque sia al potere teme il popolo», dice con un leggero rammarico. Sarà forse per questo che le misure repressive del generale al-Sisi hanno raggiunto livelli impensabili, eliminando di fatto lo spazio per ogni minima forma di dissenso.

I marciapiedi della piazza sono stati ristrutturati da poco, il colore del cemento è ancora molto chiaro. «Nei giorni dopo la saura (rivoluzione) siamo venuti in centinaia per risistemare i marciapiedi», continua Ahmed elogiando il senso civico dei manifestanti. Erano stati frantumati e usati per le sassaiole contro la polizia durante gli scontri.

Rispetto a nove anni fa, la situazione non è cambiata. Sono migliaia gli arresti tra attivisti, giornalisti, blogger e difensori dei diritti umani. Solo dal 20 settembre al 3 ottobre 2019 sono stati effettuati oltre 2.300 arresti. Rischiano di dare vita, secondo Amnesty, a uno dei più grandi procedimenti penali egiziani per fatti relativi a manifestazioni di piazza.

Congelamento di fondi e travel ban inaspettati sono sempre più diffusi. Chi ha denunciato le misure restrittive subite è la giornalista egiziana Rana Mamdouh, con un lungo articolo scritto sul giornale indipendente per cui lavora, Mada Masr. Il giornale stesso ha subito un raid degli agenti della sicurezza concluso con un breve arresto di Rana, della direttrice Lina Attalah e del giornalista Mohamed Hamama, rilasciati dopo qualche ora.

QUALCHE GIORNO PRIMA a Rana è stato impedito di salire su un volo per la Giordania dove avrebbe partecipato a una conferenza sul giornalismo investigativo. Ha chiesto spiegazioni, le è stato risposto che era stata inserita nella ban list dall’Agenzia della Sicurezza nazionale. Quando ha chiesto i motivi le è stato detto: «Lei è una giornalista, deve aver fatto qualcosa».

Oggi l’Egitto insieme a Cina, Turchia e Arabia saudita è il paese con il maggior numero di giornalisti arrestati nel 2019, secondo i dati del Committee to Protect Journalists (Cpj): «La maggior parte dei giornalisti incarcerati in Egitto sono raggruppati in processi di massa e accusati sia di reati di terrorismo che di false notizie», si legge nel report.

La repressione è giustificata da al-Sisi agitando lo spettro del terrorismo islamico e il rischio di una guerra interna come accaduto in Siria e Libia.

Ma non è solo questione di libertà e diritti negati. Secondo gli ultimi dati della Banca mondiale, «il 60% della popolazione è povera o vulnerabile» e la disoccupazione giovanile è ancora intorno al 33%. Le disuguaglianze economiche continuano ad aumentare e la ricchezza derivata dalla costante crescita del pil non si è ridistribuita equamente tra la popolazione, schiacciata dalle politiche neoliberiste imposte dal Fondo monetario internazionale.

UNICA NOTA POSITIVA il salario minimo fisso a 2mila lire egiziane (115 euro) con cui si sopravvive a fatica. Tuttavia, «venire qui in piazza a protestare è quasi impossibile, soprattutto il 25 gennaio, si viene fermarti e si rischia l’arresto immediato», conclude Ahmed. È stato un anniversario silenzioso, avvolto dal terrore, mentre in Europa si chiede ancora, dopo quattro anni, giustizia per Giulio Regeni, vittima anche lui di un regime militare violento e antidemocratico come Ahmed e i giovani egiziani.