Con un decreto pubblicato ieri il governo egiziano prova a mettere fine alla questione Warraq: per la più grande isola sul Nilo, a Giza, abitata da oltre due secoli e storica produttrice di patate per l’esercito di occupazione britannico fino all’indipendenza del 1952, Il Cairo ha grandi progetti.

Non includono però la sua popolazione, circa 90mila residenti, egiziani poveri, contadini e pescatori che negli ultimi duecento anni si sono radicati qua, molti emigrati dai governatorati vicini alla capitale.

Ieri il primo ministro Ismail ha riconosciuto alla Nuca, New Urban Communities Authority, pieni poteri per la creazione di una nuova comunità nell’isola, aprendo alla confisca della terra e lo sfratto dei suoi abitanti. La decisione arriva dopo un anno di manifestazioni contro la demolizione delle baracche e le case che i residenti hanno costruito da soli nel tempo: l’apice si toccò a luglio 2017, quando la polizia accompagnò funzionari governativi a implementare 700 ordini di demolizione.

La protesta popolare difese le case («solo» 30 quelle rase al suolo dai bulldozer), ma le manifestazioni costarono la vita a un 23enne, Sayed Ali Al-Gizawy. Da allora Warraq si è organizzata, forte dei legami familiari e comunitari che caratterizzano un’isola collegata al resto della capitale solo da imbarcazioni, ma nessun ponte: proteste ogni venerdì sotto lo slogan «L’isola non si vende» e la nascita di organizzazioni di base prima inesistenti.

Il Consiglio delle Famiglie di Warraq ha incontrato rappresentanti governativi e militari (è all’esercito che vanno i migliori appalti, tramite la compagnia di progettazione Afea) che hanno provato a tranquillizzare i residenti promettendo non meglio precisati rimborsi e trasferimenti in altre aree. A preoccupare, però, sono i piani invisibili del regime, svelati dalla stampa indipendente egiziana: il quotidiano al-Shorouk, lo scorso novembre, pubblicava una mappa del progetto governativo di tramutare l’isola in un enorme hub turistico, con resort, parchi e laghi artificiali, «un’isola verde, sostenibile e contemporanea» con un nome nuovo, Horus.

In tale visione (visibile nel sito della Cube Consultants, la stessa applicabile ai progetti di una seconda capitale, New Cairo, e di Neom, mega città a metà tra Egitto e Arabia saudita) non c’è spazio per contadini e operai poveri. Che ribattono: i documenti di proprietà – derivante per lo più da usufrutto – sono la prova dei diritti sulla terra. E aggiungono: è il governo che ha riconosciuto la legalità delle costruzioni fornendo servizi di base, tre scuole, reti idrica ed elettrica. Mancano invece ospedali, mezzi di trasporto e rete fognaria.

Ad aprire il contenzioso era stato il presidente al-Sisi, un anno fa: «Non menzionerò il nome dell’isola – aveva detto – ma lì ha cominciato a crescere uno slum e la gente costruisce illegalmente. Tutti gli edifici vanno rimossi». Il riferimento legale è a una legge del 1988 che vieta di costruire a 30 metri dalle rive del Nilo. Eppure dei 72 km di riva già edificati buona parte è occupata da palazzi governativi e amministrazioni pubbliche.