La battaglia tra Ministero degli Interni e sindacato della stampa egiziani ha toccato un apice mai raggiunto in 75 anni: nella notte tra domenica e lunedì il presidente del sindacato, Yehia Qalash, diventato in due mesi il punto di riferimento di media indipendenti e società civile, è stato arrestato con l’accusa di aver dato rifugio ai due giornalisti di January Gate, Amr Badr e Mahmoud el-Sakka, detenuti dopo un violento raid il primo maggio.

«Nascondere sospetti contro i quali pendeva un mandato di arresto e pubblicazione di notizie false che minacciano la pace» sono i due crimini che Qalash avrebbe commesso e che lo hanno costretto a 13 ore di interrogatorio. Secondo il membro della segreteria del sindacato Hanan Fekry contro Qalash ci sarebbe la testimonianza di altri membri, di cui non fa i nomi. Di certo si sa che a metà maggio il sindacato si era spaccato tra chi aveva optato per la linea dura di Qalash e chi per la morbida proposta “Correggere il cammino” del quotidiano governativo al-Ahram.

Il procuratore ha imposto il pagamento di una cauzione di 10mila sterline egiziane, più di mille euro. Il sindacalista ha rifiutato di pagare e resta in stato di fermo alla stazione di polizia di Qasr al-Nile. Con lui, dietro le sbarre, sono finiti altri anche il segretario generale Abdel-Reheem e il vice segretario el-Balshy: anche loro, accusati di diffusione di notizie false in merito al raid contro la sede del sindacato, hanno rifiutato di pagare la cauzione.

Fuori dalla caserma si sono ritrovati decine di reporter e attivisti per protestare contro gli arresti mentre il sindacato si riuniva di urgenza per «discutere quali misure prendere». Una formula che scandisce da settimane i sit-in e le lotta dei media egiziani, tra attacchi più o meno velati al ministro Ghaffar ai banner neri su siti e quotidiani. A sostenere ieri la battaglia della stampa è stata Amnesty International che ha condannato quello che definisce «l’attacco più sfacciato ai media da decenni».

Ma la repressione di Stato non si ferma alla stampa, una tra le tante prede dell’attuale regime che tenta di nascondere sotto il tappetto la palese frustrazione del popolo egiziano. Ieri le ennesime condanne a morte sono state pronunciate dallo scranno di una corte militare: 8 membri dei Fratelli Musulmani pagheranno con la vita l’uccisione di 11 poliziotti durante l’assalto alla stazione di polizia di Kersada al Cairo nel 2013. Per Amnesty confessarono sotto tortura.

Fine pena mai per Mohammed Baide, guida spirituale della Fratellanza Musulmana imputato per i fatti di Ismailia, il 5 luglio 2013, due giorni dopo la deposizione del presidente Morsi: 3 morti negli scontri esplosi fuori dalla sede del governo locale. La sentenza di ergastolo si aggiunge alle due pene capitali già spiccate nei suoi confronti.

Il Cairo è irrefrenabile e la sua scure si abbatte all’interno, dove l’impunità è assoluta eccezion fatta per i movimenti critici che alzano la voce nonostante il pericolo. Ma si abbatte anche fuori, ferendo gli alleati che si attendono dall’Egitto obbedienza. Se il brutale omicidio di Giulio Regeni ne è esempio lampante, il cadavere dell’insegnante francese Eric Lang racconta una modalità di comportamento identica. Ieri è toccato agli Stati Uniti, seppure in misura decisamente meno grave: una cittadina Usa e ricercatrice universitaria, Ada Petiwala, è stata bloccata all’aeroporto del Cairo e deportata dal paese per «ragioni di sicurezza».

La notizia arriva a pochi giorni dalla consegna di 762 veicoli blindati Mrap nell’ambito dei 1,3 miliardi di dollari all’anno in aiuti militari mandati da Washington. Se il presidente Obama aveva inizialmente proposto di legare il pacchetto di aiuti al rispetto dei diritti umani, la minaccia del terrorismo islamista e il rapido ingresso del Cairo nel ruolo di alleato strategico in Nord Africa hanno cancellato ogni precondizione.