Il generale al-Sisi infila le mani nel governo egiziano e lo stravolge, dopo aver stracciato la lista di nomi preparata dal premier Sharif Ismail: quasi la metà dei ministri (9 su 23) è stata sostituita, tutti scelti dal presidente, quasi tutti di area economica.

A brillare è però il grande assente: si salva Magdi Abdel Ghaffar, ministro degli Interni. Resta saldamente al timone nonostante alla vigilia fosse considerato tra i più a rischio a causa del caso di Giulio Regeni. Fino a martedì le voci di una sua sostituzione si moltiplicavano perché considerato il responsabile delle gravi mancanze nelle indagini per individuare i torturatori e assassini del giovane ricercatore italiano. Al-Sisi, mantenendolo al suo posto, manda un messaggio chiaro: polizia e servizi hanno carta bianca.

Il rimpasto era stato annunciato per domenica, quando il programma di governo sarà presentato al parlamento. Ma i siluramenti sono arrivati ieri: i dicasteri coinvolti Economia, Finanza, Giustizia, Turismo, Lavoro, Antichità, Trasporti, Aviazione Civile, Acqua. E un decimo ministero è nato: il dicastero per il Business pubblico.

Si salva il ministro della Salute, Ahmed Rady, accusato di non aver saputo gestire la protesta dei medici, ripresa nel fine settimana: i dottori sono tornati in piazza per protestare contro la mancata punizione degli agenti di polizia responsabili del pestaggio di due medici nell’ospedale Matariya della capitale.

E se la sostituzione del ministro della Giustizia, Ahmed el Zend, è stata ufficialmente dovuta a commenti «blasfemi» sul profeta Maometto, al Tesoro finisce Dalia Khorshed e alla Finanza Amr el Gahry, entrambi provenienti da banche e corporazioni private. L’ordine è chiaro: scovare nuovi investimenti nel settore privato. A dare una mano è stata nei giorni scorsi la Banca Centrale che ha svalutato la moneta egiziana per rendere il paese più attraente per attori stranieri. Ma senza riforme, lamentano gli analisti, poco potrebbe cambiare.

L’obiettivo del novello faraone, che sostituisce figure chiave nel settore economico, è uscire dalla crisi che impedisce al paese, una volta leader del mondo arabo, di rinascere dalle proprie ceneri. L’economia non riparte (fiaccata da anni di calo degli investimenti stranieri e da attentati terroristici che limitano uno dei settori trainanti, il turismo, crollato in un anno del 15%) soffiando sul fuoco del malcontento: le disuguaglianze sociali mai sanate, il gap tra centro e periferia, i mancati investimenti in Sinai sono tutti elementi che preoccupano al-Sisi che ha la poltrona su un paese che ha già dimostrato di saper fare una rivoluzione.

La risposta all’interno è la repressione brutale di opposizioni e voci critiche; all’esterno l’utilizzo della minaccia del terrorismo e l’escalation della crisi libica, in parte infiammata dal parlamento di Tobruk che – su ordine egiziano – continua a boicottare il governo di unità.

Sul piano economico, invece, Il Cairo si affida alla sua nuova protettrice: l’Arabia Saudita che, sostenuto il golpe di al-Sisi contro la Fratellanza Musulmana, oggi riempie le casse egiziane con finanziamenti e investimenti. A dicembre Riyadh ha messo sul tavolo 8 miliardi di dollari per poi rilanciare pochi giorni fa: dai Saud arriverà un altro miliardo e mezzo per investimenti nella penisola del Sinai, teatro sia di attentati di gruppi legati all’Isis che delle deboli strategie economiche nazionali.

Il Cairo ringrazia allineandosi alla strategia regionale di Riyadh: partecipa alla guerra in Yemen e reprime i Fratelli Musulmani, quelli egiziani e quelli di Hamas a Gaza.