Un’altra firma e ieri il secondo miliardo di dollari di prestito dalla Banca Mondiale è finito nelle casse del Cairo. Manca il terzo miliardo e il pacchetto di aiuti sarà completo. Un pacchetto arrivato con diktat che non riguardano certo i diritti umani in Egitto ma le politiche economiche del governo: come i 12 miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale, anche la Banca Mondiale ha imposto riforme di austerity per ridurre le spese e attirare investitori stranieri, che si sono tradotte in taglio dei sussidi per l’energia (il costo del carburante è così salito del 78%), aumento delle tasse e riduzione del numero di dipendenti pubblici.

Tutto tace, invece, sul fronte della negazione dei diritti della società civile, strozzata da crisi economica e repressione. Ma nel mare di arresti, congelamenti di conti bancari e raid nelle sedi delle associazioni locali, qualche volta una piccola vittoria viene segnata: ieri l’application di messaggistisca privata Signal, che permette di scambiarsi informazioni senza il rischio di intercettazioni, è riuscita ad aggirare il blocco imposto alcuni giorni dal governo egiziano. Un controllo capillare, quello della rete, che l’Egitto porta avanti grazie a moderne tecnologie acquistate in Occidente (e dall’Italia, come nel caso della società Hacking Team).

Ma soprattutto ieri è finalmente uscito di prigione il romanziere Ahmed Naji, in prigione da due anni con l’accusa di aver offeso la pubblica decenza con il suo libro “The use of life”. Dopo la sentenza di rilascio di domenica scorsa della Corte di Cassazione, è stato scarcerato. Il primo gennaio si terrà una nuova udienza in merito al ricorso che Naji aveva presentato e lo scrittore potrebbe essere definitivamente scagionato.

Minuscole crepe che si allargano in un regime apparentemente granitico: proteste spontanee, ancora limitate e poco partecipate, hanno segnato gli ultimi mesi di crisi economica che ha impoverito il paese. Le classi più colpite sono quelle medio-basse, con un quarto della popolazione oggi sotto la soglia di povertà. I prezzi aumentano, le risorse scarseggiano e ne risente anche la capacità della società civile di reagire: i quotidiani e i media indipendenti denunciano da settimane l’aumento dei costi di stampa e distribuzione e il contemporaneo crollo delle vendite.

A ciò si aggiunge la crisi ormai radicata del turismo straniero, tra le principali fonti di sussistenza per una buona fetta di popolazione. Gli attentati in Sinai non aiutano, come non aiuta il contagio jihadista lungo la costa mediterranea e nella capitale: il massacro alla chiesa copta del Cairo, rivendicato 10 giorni fa dallo Stato Islamico, fa temere altri attacchi da parte di gruppi in grado di muovere le proprie cellule in tutto il territorio nazionale.

Per quello che può il presidente golpista al-Sisi usa le stragi per stringere la morsa intorno al perseguitato movimento dei Fratelli Musulmani: hanno fornito «sostegno finanziario e logistico» per le bombe in chiesa, ha detto il suo ministro degli Interni fingendo di non vedere le profonde differenze ideologiche tra i due gruppi.

Dall’altra, però, al-Sisi è consapevole dell’incapacità di garantire la sicurezza, inesistente sia sul piano militare che su quello socio-economico, una debolezza che non fa che accrescere l’attrativa esercitata dai gruppi jihadisti su nuovi potenziali adepti.

In un simile contesto di strutturale instabilità fomentata da un governo disfunzionale e repressivo, Il Cairo è costretto a guardare fuori. Oltre al sostegno delle istituzioni finanziarie internazionale, sa di dover puntare sugli alleati regionali. E con l’Arabia Saudita che ha raffreddato i rapporti, dopo generosi finanziamenti in chiave anti-Fratellanza, l’Egitto si rivolge a Israele: ieri, dopo le pressioni esercitate da Tel Aviv, al-Sisi ha ordinato al suo ambasciatore all’Onu di ritirare a tempo indeterminato la bozza egiziana di risoluzione che chiedeva il congelamento dell’espansione coloniale israeliana nei Territori Palestinesi. Si doveva votare ieri, ma è stato un nulla di fatto.