La presentatrice Jasmine Taha Zaki, prima in arabo, poi in inglese, ha dato il benvenuto al mondo in Piazza Tahrir. Il sole era calato da poco, lasciando spazio alle mille luci accese sul centro del Cairo e sul tappeto blu srotolato di fronte all’ingresso del Museo egizio.

Uno a uno sullo schermo sono passati i busti, le maschere e il nome in geroglifici di 18 faraoni dalla 17esima alla 20esima dinastia e di quattro regine, i protagonisti della Parata dorata che ieri ha accompagnato le 22 mummie dallo storico edificio di Tahrir al Museo nazionale della civilizzazione egiziana, il nuovo complesso costruito ad al-Fustat, l’antica capitale omayyide e la prima islamica d’Africa, oggi assorbita dal Cairo.

Poco dopo al punto di arrivo, ad al-Fustat, è arrivato in auto (e in diretta tv) il presidente Abdel Fattah al-Sisi. Insieme ai suoi ministri, al segretario generale dell’Organizzazione mondiale del Turismo e alla direttrice dell’Unesco ha accolto le mummie e inaugurato il nuovo museo, che apre oggi. Le strade sul Nilo sono state chiuse, la polizia è stata dispiegata lungo tutto il tragitto, cinque chilometri, affollatissimi.

Al-Sisi si è seduto di fronte a un mazzo di tulipani bianchi, dopo una camminata in solitaria lungo un corridoio illuminato di blu, in un evento che sembrava più una celebrazione del suo potere che della grandezza politica e il genio architettonico del passato: in video sono state presentate le tante opere di restauro di questi anni, tutte «volute e inaugurate da sua eccellenza il Presidente», tra cui Piazza Tahrir, l’epicentro della rivoluzione del 2011 trasfigurata per impedire che lo sia di nuovo.

Un’inaugurazione da Olimpiadi: figuranti vestiti da antichi egizi con in mano lampade a illuminare la via, bambini in bianco e blu, l’orchestra seduta e i tamburi in marcia e infine i sarcofagi, portati in jeep per l’occasione trasformate in carri egizi dorati.

Un’operazione magnificente a cui il governo ha lavorato con attenzione certosina e che arriva, caso vuole, a poco più di una settimana dalla figuraccia (anche quella mondiale) del blocco del Canale di Suez e dalla tragedia ferroviaria (l’ennesima) che ha ucciso 19 egiziani. C’è anche chi, con macabra ironia, sui social ha ricordato «la maledizione dei faraoni»: chi li vìola, attira la morte.

Un filo rosso lega i due progetti. L’allargamento dell’istmo che da un secolo e mezzo ha trasformato il commercio mondiale e l’eccentrica parata di ieri sono parte di un’identica narrativa, il prodotto di una stessa strategia e l’opera di un uomo solo.

Il nazionalismo promosso dall’ex generale al-Sisi in questi quasi sette anni di incontrastato potere è l’humus su cui crescono progetti infrastrutturali e operazioni culturali letteralmente faraoniche.

Una nuova capitale, un nuovo Canale, la trasformazione della città vecchia del Cairo in un hub residenziale a cinque stelle, la rimozione – o meglio, l’oblio attraverso lo spostamento forzato – della povertà, il rafforzamento pleonastico di un esercito già monumentale con acquisti di armi al ritmo di una superpotenza, la pianificazione di lussuose linee ferroviarie ad alta velocità per turisti e classe alta, il ruolo nella crisi libica: tessere di un mosaico che ha alla base una visione precisa, fare dell’Egitto quel che era, il cuore pulsante politico del mondo arabo.

«Se avessimo speso miliardi di dollari, non saremmo riusciti a promuovere l’Egitto in questo modo». Così l’ex ministro e archeologo di fama mondiale, Zahi Hawass, ha descritto la parata. Un gigante sì, ma con i piedi d’argilla. Perché l’Egitto che al-Sisi promuove ogni giorno con memorandum siglati con le compagnie di mezzo mondo e quello che ha promosso ieri è un paese povero.

Il 30% degli egiziani vive sotto la soglia di povertà (45 dollari al mese), un altro 30% poco sopra. I tagli ai sussidi per i beni di prima necessità – dall’elettricità ai prodotti alimentari – sono stati in questi anni al centro di battaglie andate ad affievolirsi tra chi protestava nelle strade e il governo, che ha chiesto sacrifici per il bene del paese mentre spendeva miliardi di dollari in armi (nell’anno fiscale 2019-2020 il budget per la difesa era pari a 66,3 miliardi di dollari, quasi triplicato dai 25 del 2010-2011).

Il caso più recente: la proposta di far pagare i vaccini, 10 euro a dose in un paese in cui il salario medio si aggira sui 317 euro al mese. A dare il polso della crisi è anche l’inchiesta pubblicata due giorni fa dall’agenzia indipendente Mada Masr sulla «moria» di edifici in Egitto, in particolare ad Alessandria: collassano uno dopo l’altro, da anni ormai, portandosi dietro spesso i loro abitanti.

Crollati per mancati restauri quelli antichi, perché costruiti con materiali scadenti quelli nuovi. Non ci sono soldi, lamentano gli amministratori locali, né per demolire quelli pericolanti né per ristrutturarli.

Non è solo povero, l’Egitto è anche ostaggio di un regime che criminalizza ogni forma di dissenso. Tra le spese affrontate in questi anni, c’è stata la costruzione di almeno 13 nuove prigioni, per ospitare i 60mila prigionieri politici stimati. Sono attivisti, giornalisti, avvocati, sindacalisti, artisti, intrappolati nelle maglie di una «lotta al terrorismo» tanto concreta negli effetti quanto evanescente nella definizione.

Colpisce dal Cairo a Port Said, fino al Sinai, penisola dimenticata dalle cronache ma ben presente all’esercito che vi ha instaurato uno stato di polizia nel nome della guerra ai gruppi terroristi. E nel nome del nazionalismo, della ricerca di una grandeur che ha reso infinitesimale la vita degli egiziani, immeritevole.