Il giorno dopo un assedio di circa 15 ore e il massacro di almeno 147 studenti, ad attendere in lacrime e col viso tirato fuori dai cancelli del Garissa University College (circa a 150 km dal confine con la Somalia, nel Kenya nordorientale) sono tante donne velate che sperano che chi manca all’appello sia ancora vivo: magari ferito, ma vivo da qualche parte nei pressi dell’edificio.
I corpi di molti studenti uccisi dal commando degli Al-Shabaab durante una sorta di raid punitivo al campus universitario di Garissa (in rappresaglia ancora una volta all’operazione militare lanciata dal Kenya nel 2011 in Somalia) sono stati trasportati nella capitale Nairobi per l’identificazione.
Il bilancio di 147 vittime – il più alto dopo quello provocato dall’attacco all’ambasciata americana a Nairobi nel 1998 (più di 200 i morti) – resta tuttavia provvisorio e, stando a quanto riportato da fonti governative e mediatiche, è molto presumibilmente destinato a salire visto il numero imprecisato di studenti e personale dell’università ancora dispersi.
Il ministero dell’Interno keniota infatti ha reso noto che «587 studenti sarebbero stati evacuati» (degli 815 ospitati dal college), ma senza specificare se questi fossero tra gli ostaggi o tra quelli rimasti nascosti durante l’attacco.

Tra quelli sfuggiti alla furia degli al-qaedisti, alcuni raccontano di essersi salvati restando rinchiusi per 5, 10 ore tra i cespugli o in un armadio. Altri, musulmani, sarebbero stati liberati dagli stessi Al-Shabaab perché non cristiani, e pochi altri sarebbero riusciti a lasciare l’edificio scavalcando la rete di filo spinato – seminudi per essere balzati dal letto dopo essere stati svegliati dal rumore degli spari e delle esplosioni – ad attacco appena iniziato nelle prime ore della mattinata di giovedì.

Molte delle loro testimonianze riferiscono di esecuzioni spietate da parte dei miliziani che avrebbero fatto irruzione nelle aule e nei dormitori a caccia di studenti non musulmani.
Cresce la rabbia intanto tra i residenti per quello che viene considerato un fallimento del governo keniota che non ha saputo evitare un assalto non del tutto inatteso, visti gli allarmi diffusi una settimana fa dall’intelligence riguardo all’eventualità di attacchi terroristici imminenti atti a colpire proprio gli istituti universitari.

Rabbia e amarezza aggravate dalle accuse rivolte alle autorità di non fare abbastanza in termini di sicurezza per difendere una delle regioni meno sviluppate e più vicine al confine con la Somalia e per questo un obiettivo facile e scontato per gli islamisti somali. Aree di cui è risaputo come il governo non abbia il controllo, e che si rivelano per questo quasi il suo tallone d’Achille.

Poche ore dopo l’attacco, con una foto pubblicata sull’account ufficiale twitter deMinistero dell’Interno, le autorità hanno cominciato la caccia a un uomo di nome Mohamed Mohamud (che risulterebbe «most wanted»), un ex insegnante di Garissa che si presume sia legato a due attacchi degli al-Shabaab dello scorso anno nella regione di Mandera. La ricompensa prevista per chiunque fornisca informazioni sarebbe di circa 215 mila dollari.

L’attacco e il malcontento non giovano certo all’amministrazione del presidente Kenyatta, alle prese da un lato con una minaccia terrorista attiva soprattutto nella zona costiera (ai confini con la Somalia, dove è più evidente la discrepanza tra gli alberghi a cinque stelle – tradizionale meta dei turisti occidentali – e le baracche del resto della gente del posto, soprattutto giovani colpiti da miseria e disoccupazione); dall’altro con il declino dell’industria – vitale per il Kenya – del turismo.

Il massacro è stato fermamente condannato dalla Casa bianca e dal Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon che ha ribadito la sua solidarietà con il popolo e il governo del Kenya, nonché il continuo sostegno delle Nazioni Unite nei loro sforzi contro il terrorismo.
Piena condanna anche da parte di Papa Francesco che ha definito l’attacco un atto di «brutalità insensata».