Dopo due ore di mare si tornava a casa sazi e affamati. Sazi di svago, vuoti di stomaco. Le due ore a mollo per soddisfare il piacere della pesca subacquea ci facevano perdere oltre due chili di peso corporeo. Una salutare attività sportiva, la pesca subacquea in apnea, cui faceva seguito un lauto pranzo per surrogare le energie bruciate. La preda di mare era sempre quella, l’ambìto sarago dalla pezzatura accettabile per essere infiocinato col fucile ed esibire a noi stessi come trofeo, prima di finire a fuoco lento sulla graticola.

Gli apneisti ponevano il sarago all’apice dei pesci da cattura. Certamente la cernia e il dentice erano altrettanto apprezzati, se non di più, ma queste erano prede di profondità per subacquei professionisti che noi non ci sognavamo. Sulla scogliera bassa, da cui ci apprestavamo all’immersione, era stato tirato su un chiosco-bar, alla buona, che per i frequentatori abituali teneva la cucina aperta. Il titolare preparava un paio di piatti con l’acqua di mare: la spaghettata con cozze oppure con polpa di ricci (di questi ultimi vanno ghiotti gli stessi saraghi), la minutaglia per il fritto misto.

Se prendevamo il polpo o la seppia glieli lasciavamo e in cambio ci arrostiva i saraghi, di specie fasciata (la più comune), ancora guizzanti. Il chiosco non aveva neanche un nome e, per indicare il posto della discesa al mare, lo chiamammo “bar del sarago”; meglio ancora, invece di “bar”, “club”, visto che era stato alzato un pergolato sopra una pedana con tre-quattro tavoli per qualche giro di mano con le carte.

Enzo, il titolare, utilizzò una tavola dal relitto di un barcone, come insegna, e v’incise il nome (suggeritogli) “Sarago’s Club”.

L’idea, che era subito piaciuta, risultò indovinata. Perciò un tavolo per noi non mancava mai, specialmente quando all’imbrunito ci attardavamo nel gioco del “padrone”: un gioco d’osteria piuttosto datato che prevede la nomina di un padrone il quale, a proprio giudizio, stabilisce le bevute (di vino) fra i presenti. Insomma chi deve far bere e chi no. Il fine appunto, un po’ perfido, è di lasciare per ultimo uno della compagnia senza neppure un goccio. All’”urmu”, si diceva nel gergo fra i coetanei della nostra città. Con sorpresa, quando l’andammo a vedere, ci aveva pensato il western “Il mucchio selvaggio”, girato da Sam Peckinpah nel 1969, a sdoganare il gioco del “padrone” dagli ambiti regionali. Fra una scorreria e l’altra i sei fuorilegge protagonisti del film, con William Holden nel ruolo di capobanda, si passano una bottiglia che scolano rapidamente lasciando uno di loro col desiderio della bevuta. La sequenza si chiude con una fragorosa risata di scherno, ma senza malanimo, nei confronti del compagno di avventure rimasto a secco.