«Fuori l’Iran da Baghdad»: le orecchie iraniane hanno colto subito quegli slogan risuonare sabato 30 aprile nella Zona Verde, mentre in migliaia entravano in parlamento nel simbolico atto di riprendersi l’Iraq. Teheran e il leader della protesta, il religioso sciita Moqtada al-Sadr, sono corsi ai ripari: uno slogan anti-iraniano nella capitale irachena è un evento più unico che raro. Al-Sadr, riportano fonti anonime, è volato in Iran dove ha incontrato Ali Shamkhani, segretario del Consiglio Nazionale di Sicurezza.

Per un personaggio considerato lontano dall’ala iraniana, quella visita ha un significato politico profondo. Ne abbiamo parlato con Salah al-Nasrawi, giornalista iracheno collaboratore di Al-Ahram, Bbc e Ap.

Cosa c’è dietro l’assalto da parte dei sadristi alla Zona Verde?

L’emersione della politica della strada, del potere del popolo. I partiti negli ultimi mesi non hanno preso seriamente la frustrazione della gente e il crescente ruolo di al-Sadr: lo vedeno ancora come un religioso estremista interessato a garantirsi un po’ di potere. Non capiscono cosa al-Sadr sta guidando: una rivolta popolare, con a capo sì a al-Sadr e il suo movimento ma che sta coinvolgendo settori più ampi della società. Le migliaia di persone che protestano non sono necessariamente sadristi, ma persone scontente, disilluse, che hanno trovato in al-Sadr l’opportunità di esprimere la propria rabbia. Assistiamo ad un movimento popolare di massa che mobilita strati diversi e ampi della società contro l’élite politica, in particolare quella sciita.

Al-Sadr punta a governare?

Potrebbe sembrare che al-Sadr combatta la tradizionale leadership sciita per ritagliarsi maggiore autorità, ma è sbagliato limitarsi a vedere questo movimento come una lotta per il potere governativo. Punta invece a modificare l’intero processo politico. È un momento di svolta nella storia recente dell’Iraq: nel 2003 c’è stato un cambio di regime orchestrato dalle forze di occupazione Usa, ma ora gli iracheni tentano la via della mobilitazione sociale e popolare per gestire direttamente e da soli il cambio di regime. Quello che al-Sadr fa è usare questo potere popolare per modificare l’equilibrio interno, è tornato alla politica della strada sfruttanto sentimenti patriottici.

Può quindi diventare un leader nazionale e non meramente sciita

Dipenderà da come si comporterà nelle prossime settimane. Se farà del suo movimento il rappresentante degli sciiti iracheni, finirà per trasformarsi in una sorta di Khomeini iracheno, sbagliando. Ma se saprà allearsi con gli sciiti laici – la maggioranza – e con i sunniti, una possibilità di cui parla da tempo, si ritroverà in mano la migliore delle occasioni per trasformare in positivo l’equilibrio interno dei poteri. Non si sa ancora come i sunniti reagiranno (parlo delle comunità, non dei leader partitici) ma è possibile che giudichino questo tentativo attraente, efficace a superare quelle divisioni settarie che li discriminano. Ciò porterebbe alla nascita di una piattaforma sunnita-sciita, quindi nazionale irachena, e farebbe di al-Sadr un leader nazionale.

In questo quadro come si inserisce l’Iran, distante dalle posizioni sadriste?

Gli iraniani non ha fatto i salti di gioia per le ultime mosse di al-Sadr ma allo stesso tempo sono leader realistici: alla fine si tratta comunque di un rappresentante sciita e la Repubblica Islamica sa di poter discutere e coordinarsi con il suo movimento. È real politik: se al-Sadr diventerà un leader nazionale, Teheran modificherà la propria strategia in virtù di una cooperazione diretta. Soprattutto alla luce di quanto successo sabato nella Zona Verde: mentre i manifestanti lasciavano il parlamento, alcuni hanno intonato slogan anti-iraniani, chiesto l’uscita di Teheran dal paese e insultato il generale Suleimani, capo dei pasdaran. Subito i media iraniani hanno attribuito quegli slogan a degli ‘infiltrati’, baathisti e sunniti che hanno preso parte alla protesta al fianco degli sciiti. La verità è che sono stati intonati da sciiti iracheni e questo spingerà Teheran al compromesso con i sadristi.

Facendo i conti non si può dimenticare l’oste: gli Usa e gli alleati del Golfo

L’Iraq è ad un passo dal ritrovarsi con un parlamento e un governo disfunzionali. Il rischio è un vacuum politico gravissimo che gli Stati Uniti non vogliono, tanto che continuano a dire di sostenere il premier al-Abadi: in poche settimane Washington ha mandato a Baghdad Carter, Kerry e Biden per mostrare supporto al primo ministro. Ma è un atteggiamento semplicistico e naive, lo stesso errore che commissero con al-Maliki 8 anni fa, quando insistevano ad appoggiarlo nonostante fosse capo di un regime dittatoriale. Al-Abadi è debole, riluttante alle riforme, privo di una visione strategica e per questo gli Usa potrebbero essere costretti ad un accordo con l’Iran per la sua sostituzione.

Ovviamente nel caso di un accordo tra Iran e Usa, il Golfo vorrà avere voce in capitolo soprattutto alla luce del denaro che Washington gli intende chiedere per la futura ricostruzione dell’Iraq. Washington punta a forgiare una soluzione regionale per l’Iraq in cui infilare Turchia, Golfo e Iran. Il possibile output è una balcanizzazione dell’Iraq, un compromesso tra i poteri regionali e l’Iraq che per poter essere reintegrato nella regione dovrebbe piegarsi alla divisione settaria del paese. Al-Sadr, però, scompiglia le carte.