Quest’anno alla 35esima edizione del Rossini Opera Festival (ROF) (10-22 agosto) a Pesaro, vengono presentate quella che probabilmente è la più popolare delle opere del compositore pesarese, Il Barbiere di Siviglia, e due testi usciti di produzione fin da subito o quasi, Aureliano in Palmira e Armida. Il primo è del 1813, il compositore aveva 21 anni e alle spalle 11 opere; il secondo è di 4 anni dopo.

Le opere per il teatro di Rossini sono 39 in tutto; quelle che ti può capitare d’incontrare nella programmazione delle stagioni teatrali meno della metà, una quindicina direi, ma a stare larghi. Le altre credo si possano sentire quasi esclusivamente in questo festival che, nato nel 1980 un po’ come un capriccio di una città allora produttiva e benestante, ebbe una risonanza internazionale immediata, convogliando negli anni migliaia di turisti colti a godersi spettacoli spesso di altissima qualità. Il top fu nel 1984 quando il ROF allestì l’opera di Rossini che ancora non si conosceva, della quale si diceva fosse una cantata eseguita nel 1825 per l’incoronazione di Carlo X.

Era Il Viaggio a Reims, ossia L’Albergo del Giglio d’Oro, che si rivelò come il più splendido testo del teatro musicale del compositore, la cui ripresa filmata verrà proposta stasera (ore) in piazza del Popolo. La musica che si credeva scomparsa era stata ritrovata, molte parti se ne conoscevano poiché erano scivolate in Le Comte Ory, ma quel che aveva di sublime consisteva nel fatto che non avendo alcun senso il libretto, né l’azione né il dramma, nulla vi era che potesse mettere in secondo piano canto, ritmo e l’effetto puramente musicale anche per una frazione minima di tempo. I pompieri dei nostri giorni amano il Tell, che verrà tra 4 anni, ma l’ultima opera di Rossini non è che un’enorme presa in giro dei deliri bandistici che si rincorreranno in quel teatro romantico che nel 1829 era appena agli albori. Quegli anni furono d’oro per quel che riuscì a produrre nello spettacolo operistico.

I cast erano spesso insuperabili. Da Martinafranca a Pesaro e a Torre del Lago transitavano cantanti d’eccellenza assoluta (un cast come quello del Viaggio a Reims è irripetibile con la Gasdia, la Valentini Terrani, la Cuberli e la Ricciarelli (tutte in una fase felice della propria arte) e con Ramey, Raimondi, Gimenez, Araiza, Dara e Nucci. Anche gli spettacoli erano spesso d’alta qualità. Un po’ meno sicure di sé spesso le orchestre e i cori, ma l’assenza di contratti di stabilità non permetteva che s’insediassero nei loro corpi i batteri mortiferi del suonare a contratto. Del resto non erano imprese nate per accumulare alcunché sfruttando il lavoro altrui; non erano barboge, grige e burocratiche, ma piene di appeal.

Direttori, registi, cantanti e tutti partecipavano con il meglio di sé, reale o ritenuto che fosse, e il clima infuocato dei contrasti tra prime donne non riguardava solo soprani e contralti , ma dilagava tra studiosi e critici contagiando figure quali Fedele D’Amico e Philip Gossett in dispute che avrebbero potuto fornire ottimi libretti a un Rossini redivivo.

Alberto Zedda fu il direttore che servì il festival con maggior fedeltà e dedizione già dagli inizi. Il regista, fino alla presa di possesso del Viaggio a Reims di Luca Ronconi, era stato forse lo scenografo Pier Luigi Pizzi. Luci e scene d’incanto le sue con alle spalle grandi maestri dell’arte: il Veronese per esempio per Bianca e Faliero. Quello di Pizzi andava un po’ d’accordo con il Rossini di Adriano Cavicchi, curatore tanto manierato del basso continuo di alcune opere da risultare pesante e noioso, come lo sono spesso certe cornici magniloquenti se pur vuote che opprimono quadri leggeri, idee più che cose.

I filologi nuociono anche a Rossini: stare in guardia col cornetto acustico a vedere se passa qualcosa che s’è già udito altrove non serve a nulla, se non a far a pezzi una musica. Più interessante è vedere come tratti di una cosa siano poi parte di un’altra, di nuovo vivi se lo sono, con altro senso. Inoltre, se si pensa al fatto che nelle opere dovevano esserci dei cori per distribuire un po’ di soldi ad avventizi locali che aspettavano l’arrivo delle stagioni d’opera, carnevale soprattutto per arrotondare le entrate cantando in coro; se si pensa a ciò non ci si chiede più cosa stia a farci il coro in certe opere e nemmeno ci s’interroga sulla qualità.

Verrà poi Verdi, inventerà i diritti d’autore, il carro di Tespi sarà sostituito dalla sua carrozza in viaggio per Pietroburgo, i clientes dai dipendenti e il pubblico comincerà a disperdersi diventando, quel che ne resterà, massa di manovra per i politici che, senza metterci nulla di proprio, vorranno indossare le vesti di mecenati.