Da qualche tempo neppure le dichiarazioni programmatiche del presidente del consiglio forniscono delle indicazioni puntuali sugli indirizzi politici della maggioranza. A maggior ragione, non è certo dal volo panoramico su tutti i grandi problemi che il capo dello Stato fa nel suo atto di insediamento dinanzi alle camere che si possono ricavare i caratteri specifici del suo settennato.

A prescindere da Pertini, che lasciò una traccia sfacciatamente di parte nel suo memorabile esordio, ogni presidente segue il solito repertorio della retorica quirinalizia, apportandovi certo dei peculiari aggiustamenti dovuti al suo stile ma senza tradire uno spartito rigido, che si ripete nel tempo.

E Mattarella ha obbedito alla regola classica della retorica che imponeva a un politico-giurista poco noto al grande pubblico di evitare proclami solenni, tempi biblici, immagini forti e troppo marcati affondi. Il presidente ha prospettato il ventaglio dei suoi valori di riferimento (spirito di comunità, resistenza, pace, solidarietà, legalità, lotta alla corruzione e alla mafia). Però, su questo campo, oltre la nobile testimonianza morale, il capo dello Stato non può spingersi, perché è disarmato nei poteri di intervento.

E’ invece nella lettura dei guasti accumulatisi nella congiuntura politico-istituzionale, dominata da una estensiva idea dell’emergenza che tutto autorizzava a sospendere e ad annichilire, che il contributo del Colle potrebbe rivelarsi più incisivo. E qualche accenno all’eccesso di decretazione, che ha deturpato il volto del parlamento, Mattarella l’ha fatto, nel quadro però di un riconoscimento del lavoro compiuto per le necessarie riforme istituzionali. Ma è proprio la metafisica della riforme strutturali, come imperativo categorico da perseguire a costo di qualsiasi rottura formale e sostanziale (deleghe, decreti, canguri, continui voti di fiducia), ad aver generato ulteriori scompensi nell’ordinamento, che andrebbero sanati da una nuova politica delle istituzioni.

Con quali categorie interpreta Mattarella questo ciclo politico? La sua immagine dell’arbitro, che chiede anche ai giocatori di contribuire ad una partita regolare, non sembra la più adeguata alla comprensione e quindi alla gestione della fase attuale. Non esiste più un bipolarismo muscolare cui porre argini con la moderazione di un arbitro che distribuisce torti e ragioni e frena le intemperanze di un qualche leader eccentrico. Anche per questo l’invito di Berlusconi al Quirinale, in nome dell’agibilità politica del leader che va comunque riconosciuta al di là delle preoccupazioni formali, solleva dei problemi perché svela la persistenza ormai meccanica di timori sorti entro un antico schema bipolare che in realtà si è dileguato da un pezzo.

Nel tempo del partito unico della nazione, al capo dello Stato spetta un ruolo ben diverso da quella ossessione, che fu anche del suo predecessore, di invocare un permanente clima di grandi intese ritenute indispensabili per placare i timori destati dalla continua simulazione di una guerra civile incombente. Forse un qualche tratto incisivo di inclusione costituzionale andrebbe riservato all’opposizione grillina che, a prescindere dalla scarsa qualità del suo operato, rappresenta comunque la più rilevante componente di opinione che agisce al di fuori del perimetro del partito unico della nazione ed è stata nel complesso poco tutelata nelle sue attribuzioni parlamentari.

Il problema nuovo che il capo dello Stato dovrà affrontare è quello della necessità di costruire, se non dei contropoteri, almeno dei presidi di resistenza e contenimento rispetto al dogma della velocità che sfigura le istituzioni. Non c’è più un parlamento che funzioni e evochi la dignità di un ruolo cruciale nella democrazia rappresentativa. Le camere, così piene di incapienti ossessionati dallo spettro del ritorno al voto, accettano tutto, decreti, deleghe, canguri. E già in 180 hanno cambiato casacca perché attratti dal profumo mattutino di Renzi, come dichiara uno dei transfughi di Sel. Questo parlamento di nominati non esercita alcuna azione conflittuale contro il governo. La durata vale più di ogni altra cosa.

Il capo dello Stato dovrebbe riflettere sul carattere evocativo dei modi della sua elezione. Mai nella storia repubblicana il capo del governo (che peraltro non è un parlamentare, come pure il contraente del patto asimmetrico del Nazareno) ha diretto in maniera così esplicita i lavori per la designazione della più alta carica dello Stato. Anche De Gasperi aveva una sua preferenza per il conte Sforza ma non riuscì ad imporlo e venne prescelto Einaudi.

La tramutazione della elezione del capo dello Stato in una questione di governo (con la leggenda per cui un ministro non può non votare per il presidente che autorizza Palazzo Chigi a tramutarsi in sede di incontri di delegazioni) indica, per chi intenda coglierli, segnali inquietanti di scivolamento verso forme di premierato totale senza argini e controlli efficaci. Per la prima volta il Porcellum (non a caso dichiarato incostituzionale) dispiega in maniera trasparente i suoi effetti assolutistici. In un parlamento di nominati, che sperano nella rielezione, e nella destrutturazione delle funzioni dell’opposizione (disgregata, addormentata), il capo di un partito con il 25 per cento può fare ciò che crede.

Mentre in Italia il conformismo dei media racconta la storiella secondo cui proprio con il metodo Quirinale (quando proprio il pirata conquista il controllo della nave, è chiaro che il suo ordine non avrà trasgressori) sarebbe da celebrare una bella metamorfosi ormai avvenuta del ragazzo ambizioso di Rignano in uno statista o in un puro animale politico come dice Massimo Cacciari, in Europa le tv ridono di Renzi. E mostrano il premier che arriva in ritardo da Martin Schulz, che aspetta con insofferenza e infastidito va a prendere un caffè. Sembra la riedizione della scenetta di Berlusconi che si presenta in ritardo dalla Merkel. E le tv francesi ricamano proprio sulla frattura caricaturale tra la sobrietà tedesca e la improvvisazione italiana di un capo di governo che interrompe la conversazione per fare un selfie, sbadiglia in conferenza stampa, dà segnali di noia e di insofferenza, con il cellulare sempre in mano.

Tra lo stile sobrio di Mattarella e le smorfie del royal baby esiste un abisso. Non sono affatto complementari i due mondi, come dicono gli adulatori. Sono opposti e lo scontro tra le loro due culture delle istituzioni sarà inevitabile. Nella carenza di opposizione e nel dominio assoluto, che le alchimie del maggioritario in salsa Porcellum prima e ora Italicum consegnano al premier unto dai gazebo, proprio al Quirinale toccherà difendere dei preziosi equilibri minacciati. Se resterà fedele a quel solido costituzionalismo democratico, che lo avvicina molto alla limpida cultura istituzionale di Leopoldo Elia, il nuovo presidente saprà tenere testa alle semplificazioni del sindaco d’Italia. Certo è che nella sua opera di custode non dovrà lasciarsi intimorire dalla inevitabile solitudine del capo dello Stato fedele alla costituzione. Il peso della solitudine lo toccherà con mano perché questo è un cupo tempo di slavina costituzionale.