Stavolta a salire per primi al Colle saranno i partiti, tutti entro la giornata di giovedì con il Movimento 5 Stelle a chiudere il corteo, preceduto dalla delegazione del centrodestra unito. I presidenti delle Camere Casellati e Fico e il presidente emerito Napolitano arriveranno invece venerdì. Il rovesciamento dell’agenda sembra alludere alla possibilità che il capo dello Stato chiuda il secondo giro con un incarico esplorativo affidato a uno dei presidenti delle Camere oppure, più probabilmente, con un preincarico.

CHE FINISCA DAVVERO così non è affatto certo, anzi. Ma è sicuro invece che il Quirinale intenda far pesare quella possibilità. I partiti chiedono tempo, e lo avevano già fatto nelle prime consultazioni. Però, ragionano al Quirinale, «una cosa è chiedere tempo e un’altra cosa è perdere tempo». La minaccia velata di un preincarico serve proprio a forzare la mano ai partiti costringendoli a fare chiarezza.

Il quadro infatti è meno chiaro di quanto non appaia. Da un lato ogni strada pare chiusa. L’incontro tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio è saltato.«E’ possibile che non ci sia», ammette il leghista lasciando il Senato, e la faccia da funerale è tutta un programma. Dal quartier generale di Di Maio confermano: nessun incontro. Comunque non prima delle nuove consultazioni, perché il macigno Berlusconi non è aggirabile. E stavolta è Di Maio ad agitare lo spettro di un immediato ritorno alle urne, con toni molto simili a quelli adoperati nei giorni precedenti dal capo del Carroccio: «O si va al governo per cambiare tutto o non ne vale la pena». Meglio le elezioni, insomma.

EPPURE LO STESSO LUIGI Di Maio si dichiara ottimista: «Sono molto fiducioso. Sia nel centrodestra che nel Pd ci sono evoluzioni e discussioni che rispetto. I partiti hanno bisogno di tempo». Quelle «evoluzioni», per la verità, ancora non ci sono, ma i tentativi in quel senso sono invece effettivi. Nel Pd lo scontro è ormai aperto e chiaramente visibile. Nel centrodestra, o meglio nel partito azzurro, lo spostamento è invece sotterraneo: non passa per il fronteggiamento tra due linee ma per le decisioni che dovrà prendere Silvio Berlusconi. Il Cavaliere non vuole certo un governo M5S sostenuto dal Pd, eventualità per sua fortuna poco probabile: per le sue aziende sarebbe un esito apocalittico. Ma non vuole neppure i 5 Stelle all’opposizione, da dove godrebbero di una rendita di posizione che ne alimenterebbe le già cospicue fortune elettorali.

DUNQUE BERLUSCONI è pronto a negoziare. In quali termini non è ancora chiaro neppure a lui stesso, ma la linea grintosa assunta all’uscita dell’incontro con Sergio Mattarella, «mai con il Movimento 5 Stelle», vacilla. Probabilmente Forza Italia sarebbe pronta a concedere moltissimo pur di cementare un accordo di governo, forse anche arrivando a un appoggio esterno che per Di Maio sarebbe certo meno imbarazzante di un ingresso degli azzurri nell’esecutivo. Ma dalla sponda opposta dovrebbero esserci dei passi concilianti, pur se misurati e non clamorosi, dei quali al momento non c’è traccia. Il «capo politico» dei 5S, anzi, sembra essere passato dalla parte del più duttile tra gli attori in campo a quella del più rigido. Ieri, oltre a negarsi a Salvini, ha fucilato preventivamente ogni possibilità di «terzo nome», cioè di un governo del presidente, con un premier scelto da Mattarella in una rosa di personalità gradite tanto al Carroccio quanto ai pentastellati: «Massimo rispetto per Cottarelli, Severino e Cantone, ma non si sono candidati. Il tempo dei governo tecnici e dei giochi di palazzo è finito».
Quello di Di Maio è insieme un mettere le mani avanti, perché il tentativo che paventa e che boccia in partenza dovrà necessariamente essere tentato se non si troverà altra soluzione, e un segnale di paura, perché i 5 Stelle non vogliono affatto essere tagliati fuori da un eventuale governo.

COSÌ LE PAURE INCROCIATE da un lato e l’obbligo di tenere alte le ragioni della propaganda in vista di possibili nuove elezioni dall’altro, complicano ulteriormente un quadro già molto complesso e rendono più difficile il compito del presidente.

Mattarella sa che ci sarà bisogno di altro tempo, che bisognerà attendere l’assemblea del Pd, le regionali in Molise e poi in Friuli. Ma sa anche che quel tempo non può essere eterno.