«Questo film non è un giallo, Non è neanche un noir, non è nemmeno un film «sulla violenza della polizia». È più un film sulla colpa, questi personaggi c’hanno tutti una qualche colpa, tranne l’abruzzese, il garagista…» E qua ci interrompe il cameriere, per chiederci cosa prendiamo da bere, perché ho portato Ascanio Celestini a pranzare in osteria, una di quelle schiette e romane, per parlare in tutta calma del suo Viva La Sposa, che mi era piaciuto a Venezia e che ora (22 ottobre) esce nelle sale.

È un crocevia di traiettorie esistenziali questo film, un reticolo di storie che si sfiorano appena nel «mondo di sotto» di una Roma lontana anni luce dalle alte terrazze sorrentiniane di bellezza più o meno grande.

L’epicentro di questo mondo è il Quadraro, pasoliniano e periferico e l’epicentro di questo Quadraro è il bar sotto casa, dove tutto si svolge. Celestini è Nicola, attore-poeta di spettacoli per bambini, che riempie i vuoti pneumatici del vivere con la sambuca. A lui sono legati Salvatore, (Francesco De Miranda) che forse è suo figlio, ma forse no, e Anna (Veronica Cruciani), che certamente ne è la madre, prostituta di professione. Nicola è amico sin dall’infanzia di Sofia, una Alba Rohrwacher vibratile e concentrata, che sogna di fuggire in Spagna senza mai riuscirci e ha un padre che vorrebbe farla lavorare nella salsamenteria di famiglia, senza mai riuscirci anche lui. E poi c’è Sasà (Salvatore Striano), che morirà di botte in una questura e campa simulando incidenti stradali, come suo padre, che un giorno Nicola investe uccidendolo. Intorno a loro altre storie, altri invisibili. Ordiniamo le alici fritte e il vino, intanto parliamo delle parole, di come sia stato diverso scrivere questo lavoro
È il primo pensato direttamente per il cinema, senza essere stato prima una piece teatrale.

Volevo evitare la mediazione di ulteriori forme di elaborazione, come era avvenuto per Pecora Nera, che è stato libro, programma radiofonico, film e spettacolo, e non volevo che dietro ci fosse lo stesso tipo di lavoro di ricerca, i tre anni di interviste nei manicomi eccetera. Qui volevo che la materia di partenza fosse un luogo, concreto e reale, il Quadraro di Roma, mentre in Pecora nera la localizzazione era labile, i luoghi astratti. Poi per me questo è solo uno dei tanti Quadrari del mondo, quelle città fuori dalle città che sono uguali a Parigi come a Berlino come Milano. Un pezzo di Roma lontana dalle fontane barocche e dai monumenti, abitato da personaggi che siamo abituati a non vedere, perché poco letterari, troppo comuni, poco poetici, o interessanti.


Parliamo di Pasolini, di come ritraesse topografie umane e geografiche che erano le stesse, ma con un senso di lotta disperata dentro e contro la vita che qui latita.

I miei personaggi non lottano per mancanza di destino. Pensano de non aveccelo ‘n domani, non se ne interessano proprio, e non pensano di poterlo migliorare, semplicemente non se lo immaginano. A differenza di quelli di Pasolini, che vivevano in strada veramente, per i miei la strada si riduce al bar. Sono privati di quel destino, che i personaggi di Pasolini cercavano disperatamente di cambiare. Sono personaggi completamente immobili, e siccome il mondo intorno invece continua a muoversi, non possono che finire superati, schiacciati. Poi non è che il destino non ce l’hanno veramente, perché da qualche parte vanno, Nicola va a sbatte davvero, ma non se ne accorgono e non se ne preoccupano minimamente, non fanno nulla per incontrarlo, a differenza dei personaggi dell’epica o della tragedia. L’unico che ad un certo punto ha una sorta di sentore del proprio destino, per quanto veramente tardivo, è Sasà che arriva al bar e si sente raccontare dalla cameriera che ha visto al tg l’orrendo crimine che ha commesso senza saperlo, e solamente lì ha la consapevolezza di ciò che lo aspetta, elabora l’idea di colpa.

Nicola, che ha appena investito il padre di Sasà, fissa il corpo e l’enorme pozza di sangue con un’aria più perplessa che sconvolta, neanche troppo stupita…la morte come accadimento ordinario?

C’era uno nella mia borgata quann’ero ragazzino che campava così, ce campava tutta la famiglia, questo girava con una Graziella azzurra ed era sempre più storto man mano che passava il tempo, continuava a fare incidenti ed era tutto segnato, pieno di cicatrici, poi non l’abbiamo visto più e mia madre mi ha detto che era morto, e non è che ci sia sembrata una cosa così tragica. Cioè, uno che campa buttandosi sotto a’ ‘e macchine…capirai, una volta può anche capitare che si butti male. Questi personaggi, poi, non se la possono neanche permettere una vita tragica, per la tragicità ci vogliono gli eroi, e questi non compiono nulla di eroico. L’unica azione forte, tragica del film è lo schiantarsi di Nicola contro un muro con il furgone. Dopo la morte di Sasà in questura, salta tutto, si compra due bottiglie di disperazione in forma di sambuca, e via verso una fine tragica.

Le scene dedicate alla sposa e il finale con Salvatore che si mette il rossetto recitando «viva La Sposa» hanno un che di surreale e di non immediatamente interpretabile.

Nel rossetto ci hanno visto un surrogato della masturbazione o di una omossessualità latente, nella sposa una metafora dei sistemi di comunicazione di massa o di una realtà che i personaggi osservano restandone esclusi…per me vanno tutte bene, perché quelli sono due momenti aperti del film. Il film vero finisce quando Salvatore ruba la borsa, o addirittura quando Nicola se schianta. Il finale e la sposa sono elementi che restano in circolazione a prescindere, aperti all’interpretazione dello spettatore. Il film non dice se Salvatore è emozionato per il furto che ha fatto o perché si mette il rossetto, deve dirlo lo spettatore. La sposa, sicuramente è una forma dell’assenza, ciò che non è nelle vite dei personaggi, ma se sia un miraggio o il destino che gli passa davanti incompreso, o chi sa che altro, lo decide lo spettatore. Salvatore nota che: «P’esse Bella È bella, è quella che abbiamo visto stanotte ar benzinaro». Ed è l’unica informazione su di lei. Poi come dice mia moglie, non è che in un film si debba interpretare tutto…

Hai consegnato agli attori delle costruzioni fatte e finite, o hai usato la loro cooperazione creativa, per definire i personaggi?

Personaggi fatti e finiti, C’è stato un lavoro di improvvisazione ma è stato piccolo, molto è stato fatto durante i provini. Con l’attore parto dal testo, sempre, anche se non è quasi mai la parola che dice ad avere peso, quanto l’idea che si fa del suo personaggio. Io poi non gli dico come interpretarlo, non perché non me ne sia fatto una idea mia , ma perché voglio che si esprima, non che imiti questa idea. Un attore di cinema, poi, anche se sbaglia macroscopicamente, purché dica le battute con la sua voce, dentro il suo corpo e con i suoi gesti, non commette propriamente un errore, è lui che diventa quel personaggio. Deve vedersi come in un sogno, deve entrare in modo morbido nel proprio subconscio e da lì estrarre i personaggi…anche se non puoi fare una seduta di psicanalisi ogni volta che reciti una scena. Nel mio film ogni attore cercava una linea sua, Alba per esempio è molto consapevole dell’inquadratura e recitava sempre in funzione al tipo di inquadratura che stavamo facendo, cambiando anche molto da un ciack all’altro. Poi è molto brava a recitare insieme agli altri attori, segue molto il modo di parlare, di spostarsi degli altri. Per non uscire dal personaggio, quando non aveva battute, si è costruita tutta una serie di scenette con gli altri attori, una vita parallela.

Caffè e due amari del capo, prima di parlare della polemica innescata dal COISP, sindacato di Polizia, che lo ha definito un film che «fa schifo».

Sinceramente avrei voluto rispondere al comunicato solamente perché ad un certo punto loro citano a sproposito il Pci ai Giovani!! di Pasolini, per far passare il concetto che in una situazione di scontro con le forza dell’ordine, Pasolini sarebbe stato dalla parte delle guardie. In realtà P.P. riconosce che gli studenti hanno ragione, ma contesta loro l’estrazione borghese, e dà torto a ‘e guardie, di cui però difende l’origine proletaria. Oggi poi non è affatto automatico che uno studente sia borghese e un poliziotto sia un proletario. Il problema vero è che attorno a tutte queste polemiche poi, in realtà, non succede molto di concreto. Guarda ai vari casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, o quello di De Luca, che è diverso, ma che è oggetto dello stesso meccanismo mediatico: tutto si risolve in uno scontro tra «tifoserie» dell’una dell’altra parte, nessuno scava per capire queste storie. Ho intervistato Lucia Uva la sorella di Giuseppe in cerca di lui da vivo, perché quello che mi sembra interessante è l’uomo, non la vicenda giudiziaria. Mi ha raccontato di quando è dovuta andà a riconosce ‘r corpo. Gli parla, accarezza un bozzo che ha sulla testa, il naso rotto, le bruciature di sigaretta sulle mani. Cioè lei si prende cura del corpo, che è un qualcosa umanissimo e ancestrale. Ed è proprio questo che a me interessava, il contenuto umano. Questo posso rispondere a chi sostiene che io abbia voluto parlare della violenza della polizia. La violenza c’è solo alla fine, sancisce la fine di una storia, prima ci sono loro, i personaggi, quando ancora sono vivi, compreso il fratello poliziotto di Sofia, con tutte le loro idiosincrasie, i loro problemi, le loro umanità, ed è questo il film, quello di cui volevo parlare.