L’anno più sanguinoso dell’ultimo quinquennio: è questa l’eredità che il 2013 lascia al popolo iracheno. Un bilancio di 7.818 morti, secondo l’Onu, in attentati e scontri tra forze governative e miliziani è il chiaro segno dell’incapacità delle autorità irachene del post-Saddam nel gestire un Paese a un passo dalla guerra civile. I tentativi di Baghdad di mantenersi distante dai settarismi siriani – rimanendo nel limbo di un debole appoggio al regime di Bashar al-Assad all’interno della Lega Araba – sono falliti. A monte sta l’elevatissimo tasso di corruzione e l’incapacità di governare che affligge l’esecutivo di Nouri Al Maliki, messo a sedere sulla poltrona di primo ministro dall’amministrazione Washington prima del ritiro delle truppe Usa, alla fine del 2011.

I fatti parlano da sé: parte dell’Iraq è oggi in mano a gruppi jihadisti, vicini ad al Qaeda, Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (IsIL) in testa. La settimana scorsa ha mostrato chiaramente il ruolo oggi svolto da al Qaeda nel Paese, più forte che mai, in Iraq come in Siria e nel resto del mondo arabo. «La metà della città di Fallujah è oggi nelle mani dell’IsIL e l’altra metà sotto il controllo di gruppi armati tribali – ha detto alla stampa un funzionario del ministero dell’Interno – Stessa sorte per la città di Ramadi».

Il terreno di scontro è la regione di Anbar, luogo caldo fin dai tempi di Saddam: lunedì, a seguito delle proteste scoppiate per l’arresto di un parlamentare sunnita, le forze militari hanno compiuto raid contro gli accampamenti anti-governativi sunniti a Fallujah e Ramadi. Ai raid sono seguite le dimissioni in massa di 44 parlamentari sunniti, irati per le politiche di repressione e discriminazione implementate dal governo sciita nei confronti della minoranza sunnita. Trattati come cittadini di serie B: questa l’accusa mossa dalla componente minoritaria del Paese.

Martedì, in risposta alle dimissioni, Maliki ha optato per un gesto di buona volontà e ha ordinato a esercito e polizia di ritirarsi da Anbar: una mossa che però ha permesso all’IsIL di occupare stazioni di polizia e basi militari, liberare un centinaio di prigionieri e accaparrarsi le armi abbandonate. Immediato il dietrofront di Maliki che mercoledì ha inviato un ampio contingente militare, mentre faceva appello alle tribù perché si schierassero a fianco dello Stato, offrendo in cambio armi e denaro. Alcune tribù hanno aderito all’appello – più che altro perché convinte che al Qaeda sia una conseguenza peggiore di qualsiasi governo Maliki – e ieri combattevano al fianco dell’esercito regolare, in scontri conclusisi con la morte di 62 islamisti a Ramadi.

Il bilancio di cinque giorni di scontri è, secondo stime ufficiali, di oltre 170 morti (più di 30 civili). E mentre al Qaeda e gruppi armati sunniti rafforzano la loro presenza a suon di attentati, si organizzano anche gli sciiti: da mesi sono nate forze di sicurezza personali per proteggere i quartieri e le città sciite. Tra queste la milizia Asaib Ahl Al-Haq, ch dopo aver deposto le armi nel 2011 per dare man forte al governo Maliki, lo scorso ottobre ha annunciato la ripresa delle attività. O ancora, l’esercito Mukhtar, un’altra delle milizie settarie che fanno dello scontro armato l’unico modo di confronto interno.

A livello internazionale, Maliki non ha mai nascosto la necessità di un sostegno esterno: dopo il ritiro delle truppe Usa, nel dicembre 2011, dopo 8 anni di occupazione, il premier ha più volte fatto appello a Washington perché inviasse militari e armi. La scorsa settimana è giunta la risposta del presidente Obama: gli Stati Uniti forniranno a Baghdad «75 missili terra-aria Hellfire e droni di sorveglianza ScanEagle entro pochi mesi».

Una goccia nel mare. Le ragioni dell’anarchia in cui versa l’Iraq non sono legate a questioni militari e armamenti e soldati non risolveranno alla radice i settarismi che spaccano il Paese. A monte stanno le politiche del governo Maliki, in primis la volontaria emarginazione della minoranza sunnita (con leggi anti-terrorismo ad hoc, arresti indiscriminati e ghettizzazione sociale e politica), pericolosa mina del processo democratico ed esempio dell’incapacità di pacificazione dell’attuale esecutivo.

A ciò si aggiunge l’alto tasso di corruzione a ogni livello amministrativo (nel 2013, secondo Corruption Perceptions Index, l’Iraq è il sesto Paese più corrotto al mondo, con l’80% del denaro gestito dalla Banca Centrale scomparso in operazioni non ufficiali) e la mancata ricostruzione: l’Iraq manca di gran parte della rete idrica e di quella fognaria, di scuole e ospedali, la disoccupazione non arretra e il settore agricolo soffre per la poca acqua e l’emigrazione di molti contadini verso le città. A poco serve la ripresa del settore energetico: nel 2013 numerosi impianti petroliferi hanno riavviato la produzione (toccando quota 141 milioni di dollari in un anno), che non riesce però ad essere gestita efficacemente dal governo per la mancanza di una legge sugli idrocarburi.