I La partita è ricominciata ieri sera, con i calciatori inginocchiati, come il giocatore di football americano Colin Kaepernick, che s’inventò qualche anno fa questa forma di protesta silenziosa contro le violenze della polizia sugli afroamericani. Ma di Paris Saint Germain-Basaksehir, ultimo turno del girone eliminatorio di Champions League, si parlerà a lungo. Un caso che farà giurisprudenza, forse muovendo qualche coscienza tra i dirigenti del pallone italiano.

LA SCELTA dei 22 calciatori, due sere fa, di lasciare il terreno di gioco del Parco dei Principi, in protesta per l’offesa razzista rivolta dal giudice di linea rumeno Sebastian Coltescu ai calciatori neri (definiti negri) in campo forse è un punto decisivo nella lotta all’intolleranza che invadono da decenni il calcio internazionale. E non per le scuse del governo di Bucarest, per l’applauso della ministra dello sport francese Roxana Maracineanu, oppure per le pressioni che sarebbero arrivate da Erdogan (da sempre vicino al Basaksehir) affinché la squadra turca lasciasse il campo, assieme ai calciatori del Psg. Ma perché l’Uefa, per la prima volta, ha capito, non ha annullato la partita con sconfitta a tavolino, decidendo di far riprendere oggi la gara.

«Se il quarto uomo ha detto quella parola deve andarsene» E ancora: «Non giochiamo se resta lui». Le parole pronunciate in campo da Kylian Mbappé e Neymar, le due stelle del Paris Saint Germain, rivolgendosi a Ovidiu Hategan, l’arbitro rumeno della sfida di Champions per prendere posizione contro il quarto ufficiale di gara.

L’ESPRESSIONE razzista, ripetuta più volte, è stata sentita da Pierre Achille Webo, vice allenatore del Basaksehir, che si è avvicinato all’arbitro, chiedendo a lui in generale al mondo (non solo del calcio) perché il giudice di linea si sentisse autorizzato a usare quella parola, prima di essere espulso. L’uscita dal campo collettiva e la decisione dell’Uefa certo non risolvono la piaga del razzismo nello sport e nel calcio. Ma qualcosa, finalmente, può cambiare. È lo sport stesso che si ribella, i campioni che fanno un passo avanti. Il gesto di Mbappè, Neymar e degli altri 20 calciatori l’altra sera al Parco dei Principi avrà fatto pensare Kalidou Koulibaly, il difensore del Napoli che voleva abbandonare San Siro durante Inter-Napoli di due anni fa.

Gli ululati, l’applauso ironico, plateale, di Koulibaly verso quella fetta di tifo interista intollerante, l’espulsione decisa dall’arbitro. Carlo Ancelotti, allora tecnico del Napoli, spiegò che gli azzurri avevano chiesto in tre occasioni che la gara fosse sospesa. Nulla di fatto. Andò invece oltre Kevin Prince Boateng, centrocampista ora al Monza, che con la maglia del Milan scagliò una pallonata verso la tribuna dei tifosi della Pro Patria dopo essere stato oggetti di ululati. Lasciò il campo Boateng, assieme a Muntari e Niang, altri atleti neri del Milan, mentre i calciatori della Pro Patria erano in fila sotto la curva del gruppetto di intolleranti, per cercare di calmarli.

ANCHE a Parigi si è deciso di non giocare più, in una vetrina mondiale come la Champions League. E l’Uefa ha deciso per la prosecuzione della partita al giorno successivo con una nuova quaterna arbitrale, sospendendo la squalifica che sarebbe dovuta scattare per Webo e aprendo un’inchiesta sulla vicenda. Qualche ora prima, da Mbappè a Neymar è proseguita sui social la guerra del calcio al razzismo. «Say no to racism», ha scritto l’attaccante francese riprendendo uno slogan della Uefa. «Mister Webo siamo con te», ha aggiunto Mbappè.

E così Neymar, che sempre su Twitter scrive Black Lives Matter. E forse la consapevolezza di doversi attivare contro il razzismo arriva dal movimento nato per le strade americane dopo la morte di George Floyd e i ripetuti atti di violenza della polizia verso gli afroamericani, con l’appoggio della Nba e di altre star dello sport.