Ha fatto bis al Lido, Al Pacino, che fa onore alla sua professione perché lui è un attore. Lo si vede, lo si sente, lo si percepisce, da come entra dalla porta, da come si siede, da come guarda la sala gremita di giornalisti e critici in attesa di tempestarlo di domande sui due ruoli sostenuti in The Humbling di Barry Levinson (fuori concorso) e Manglehorn di David Gordon Green (in concorso). Un attore sul viale del tramonto nel primo, un vecchio fabbro misantropo nel secondo. Primo appuntamento per The Humbling, presenti attore e regista. Il film è un adattamento dell’omonimo romanzo di Philip Roth, a suggerirlo a Levinson fu lo stesso Pacino (assieme avevano già lavorato in Rain man nel 1988): «All’epoca mi è subito piaciuta l’idea dell’attore in decadenza sul sottile filo tra commedia e tragedia».

«Ci siamo concentrati – prosegue l’attore classe 1940, figlio di immigrati italiani – sul punto di vista da adottare per trasferire la storia sullo schermo, quale tipo di vita faceva quel Simon Axler? Devo dire che il lavoro è proseguito spedito, perché tra preparazione di testo e scene abbiamo impiegato venti giorni effettivi. Con molta scioltezza, senza prove. Passione pura…». Gli si chiede della complessità del personaggio Simon Axler: «Direi piuttosto che è una persona comune. Nel corso della sua vita ha perso delle opportunità, come spesso accade. Con il passare del tempo cade in depressione e perde anche la memoria, fondamentale per un attore teatrale. Così non sopporta più di dire sempre le stesse cose».

Ci si incanta ad ascoltarlo, mentre gesticola o improvvisa un monologo riflettendo sul fare teatro, sulla vita. Sulla sua vita. «Anch’io ho fatto teatro, so cosa vuol dire recitare tre pièce al giorno, diversi personaggi a cui prestare il corpo, la mente e le emozioni. E allo stesso tempo pensare alla propria esistenza, tra alcol, droga e successo. La fama è un peso che a volte ti fa perdere il contatto con la realtà. Quando succede, arriva il fallimento. Barry è stato meraviglioso a rendere tutto questo nel film. La scena chiave? Quella iniziale, dove Simon bacia entrambe le maschere, quella comica e quella tragica». Parla e ti fissa con quegli occhi scuri che hanno affascinato milioni di spettatori, un carisma che ha saputo trasmettere interpretando magistralmente i cattivi più cattivi, conferendo sempre un’anima ai suoi gangster, la sua: «Non ho rimpianti, mi considero fortunato, sono riuscito a fare ciò che volevo fare e mi sento come se fossi un aereo in volo, ben lontano dall’atterraggio».

Poi rivela un dettaglio «professionale»; ovvero come dare un senso alle scene più disparate, apparentemente insignificanti: «Ricordo che per girare una scena con Gene Hackmann nei primi anni settanta in una bollente California (parla di Lo spaventapasseri di Jerry Schatzberg, del 1973, ndr) mi inventai una immagine ridicola per riuscire a essere credibile nel mio ruolo». L’attore in The humbling è depresso come il fabbro in Manglehorn, entrambi sono salvati dall’amore e lui, Al Pacino, è mai stato depresso? «Lo sono stato? Non lo so, molti lo sono oggi giorno, ma non lo sanno, mentre altri si dichiarano continuamente depressi. Come si vede che una persona è depressa? Credo che la vita ci riservi momenti di tristezza, spavento e paura, conosco questi stati d’animo, per fortuna non nell’intensità dei miei due personaggi». Si parlava di depressione anche nei film del secolo scorso per annunciare proprio la Grande Depressione, crede che questi siano segnali analoghi?: «Non lo so, so che nel Padrino 2 di sicuro Fred Corleone era depresso! Per i miei personaggi, in questi due film, è segno di chiusura verso la vita e per uscirne devono vincere l’inconscio».

Fine anni sessanta, il giovane Al è ammesso all’Actors Studio di Lee Strasberg. Atri tempi se i messi a paragone con la Hollywood rutilante e freneticadegli anni duemila: «L’Actors Studio per me è stato un posto dove ho potuto entrare in contatto con culture diverse. Un luogo dove si poteva sperimentare, e lo facevamo con un bello spirito di gruppo, con Brando, Dean, Marilyn, ecc. Si respirava un’aria di libertà, erano tutti sui trentacinque anni e in più aiutavano chi non poteva permettersi di studiare, come me. Ma Broadway non era Actors Studio! E la vecchia Hollywood era tale perché creata da grandi registi immigrati da altri paesi. Era più chiaro allora, sono grato a registi come Scorsese che hanno fatto film con noi, altre opere erano più orientate al pubblico. All’epoca la differenza era più chiara, ma è stato un luogo di scambio di idee. Oggi è cambiata perché sono cambiate le persone che dirigono gli studios. Nel bene? Nel male? Semplicemente è diversa».