In alcuni testi dei primi anni dell’800 Hegel descrive quella che in generale noi chiamiamo la realtà distinguendone due livelli: la natura naturale e la natura etica, ossia ciò che comprende, per esempio, il cielo, le stelle, la biosfera, i fossili, i fiori, gli invertebrati, i primati e quello che si manifesta in tutto ciò che deriva dall’azione meccanica o volontaria degli umani e che costituisce l’ambito che chiamiamo degli oggetti sociali: le famiglie, i tribunali, gli aeroporti, i segnali stradali, gli eserciti, ma anche i terreni coltivati, i giardini, i dispositivi con cui parliamo, scriviamo e facciamo fotografie. È interessante che Hegel usi lo stesso termine – natura – per indicare questi due livelli, quasi a sottolineare l’idea che non è sempre semplice distinguere il naturale dall’artificiale, la natura dallo spirito. Tutta la natura che abbiamo perlopiù sotto il nostro sguardo (dalle piante nel terrazzo, alle colline coltivate che vediamo dal finestrino di un treno, fino ai paesaggi che possiamo ammirare da una cima montuosa) ha subìto e subisce così tante modificazioni e interventi da parte degli umani da rendere davvero ardua la discriminazione tra il naturale e ciò che non lo è.

Di questa complessità del rapporto fra natura naturale e natura etica rende straordinariamente testimonianza la mostra allestita al Mart di Rovereto, Perduti nel paesaggio (fino al 31 agosto), che nasce da un’idea della direttrice Cristiana Collu, la quale dopo aver commissionato l’anno scorso a Jean Luc Nancy un percorso espositivo sul tema del ritratto contemporaneo (L’altro ritratto) ha affidato al critico cubano Gerardo Mosquera il compito di curare una mostra sul paesaggio nell’arte contemporanea, dove sono esposte più di duecento opere di artisti, tra i quali Todd Hido, Marina Abramovic, Isaac Julien, Agnès Varda, George Shaw, Luis Camnitzer, Anselm Kiefer, Gabriele Basilico, Sherman Ong, Du Zhenjun.

Il tema è particolarmente interessante, sia perché permette di documentare lo speciale rapporto tra la dimensione naturale e quella etica implicate nella nozione di paesaggio, sia perché, attraverso l’arte, consente una riflessione sul rapporto fra uomo e ambiente nel mondo contemporaneo, e soprattutto, perché induce a indagare la peculiarità dell’esperienza artistica contemporanea nel suo confronto con uno dei temi centrali e decisivi della pittura moderna. Non è un caso che solo con l’epoca moderna, quando accanto alla prospettiva dettata dal punto di vista dell’artista crescono le pretese di oggettività intrinseche alla rivoluzione scientifica, il paesaggio diventi un genere autonomo. Inoltre, e più radicalmente, la nozione di paesaggio è evidentemente connessa al ruolo sempre più decisivo che nel pensiero moderno assume la nozione di soggettività: solo rispetto a un soggetto che la osserva, la indaga e la studia la natura può infatti diventare paesaggio. Lo sviluppo di una cultura e di un’arte del paesaggio è connessa dunque con la nascita della moderna scienza della natura, ma anche con le grandi scoperte geografiche, con gli straordinari progressi della cartografia, con una radicale trasformazione della visione del viaggio e dunque con l’emergere di un’attenzione davvero nuova rispetto a una soggettività che si comprende sempre più come origine e fondazione del senso della realtà. Chiedersi dunque cosa sia oggi il paesaggio, cosa rappresenti e come venga rappresentato nelle diverse pratiche dell’arte figurativa contemporanea è anche un modo e un’occasione per ripensare problematicamente alcuni dei nodi fondamentali che stanno alla base della costruzione stessa della modernità e che costituiscono le forme della sua autocomprensione.

La proposta che viene fuori dal percorso curato da Gerardo Mosquera si sviluppa a diverse altezze e in direzione di diverse prospettive tematiche, le quali tutte chiamano in causa il rapporto biunivoco che si determina, in modo talvolta persino paradossale, fra soggetto e paesaggio: nelle diverse opere convocate, infatti, emergono in maniera assolutamente esplicita e non senza evidenti istanze critiche i modi in cui il soggetto si descrive attraverso il paesaggio e i modi in cui il paesaggio porta inscritte le tracce della soggettività che lo abita, non di rado nei modi della sopraffazione e nel tentativo di appropriazione di un mondo che costituisce comunque il destino finale, sia nel senso della condanna che nel senso della salvezza, di una soggettività finita e limitata.

Ciò cha la mostra tenta di evidenziare riguarda, anzitutto, i tratti di discontinuità che la nozione di paesaggio oggi richiama rispetto a quella tradizionale: in primis il fatto che l’attenzione «paesaggistica» dell’arte contemporanea sembra collocarsi più sul versante del cityscape che su quello del landscape, quasi a sottolineare il processo di denaturalizzazione o eticizzazione della natura attraverso l’intervento attivo e trasfigurativo dell’uomo. Ma anche a illustrare quel processo apparentemente opposto per cui lo sguardo rivolto a città o ambienti sociali organizzati somiglia a volte a quello dell’entomologo o del geologo – come nella bellissime fotografie di architetture metropolitane di Michael Wolf – e in altri casi a quello del testimone, – come nella Beirut deserta e bombardata fotografata da Gabriele Basilico nel 1991. Ciò che è decisivo, nelle opere esposte, è il modo in cui l’arte rappresenta come naturale ciò che è evidentemente artificiale – come accade nelle incredibili opere di Yao Lu, che somigliano, viste a una certa distanza, a lirici paesaggi dell’antica tradizione cinese e che si rivelano, osservate più da vicino, squarci naturali modellati dagli scarti industriali; e in qualche modo come ciò che è artificiale, o perlomeno inquietante e spaesante, venga assimilato al naturale – come accade nelle fotografie dei paesaggi del Congo di Richard Mosse, realizzate con una speciale pellicola a uso dei militari che conferisce un colore rosato e del tutto innaturale ai paesaggi che fanno da sfondo a una delle tante sanguinose e dimenticate guerre dell’Africa. Ma, ancora più radicalmente, ciò che emerge nel percorso narrativo della mostra è l’intreccio intimo e profondo tra la dimensione della naturalità e quella dell’etica, un intreccio che rende in qualche modo ingestibili nella loro pura autonomia le parole e gli ambiti concettuali cui fanno riferimento tradizionalmente queste due sfere della realtà, costringendoci e provocandoci continuamente a pensare al di là della dicotomia e della differenza fra natura e artificio, natura e cultura, naturale e spirituale. Emmet Gowin, ad esempio, mostra nelle sue foto aeree uno sterminato paesaggio quasi lunare attraversato da una grande crepa e segnato da innumerevoli crateri: un paesaggio che è, in realtà un campo di esperimenti nucleari nel deserto del Nevada. D’altronde, le foto apparentemente bucoliche e classicamente naturalistiche di Vandy Rattana mostrano una piccola laguna della Cambogia sviluppatasi dentro i crateri prodotti dai bombardamenti.

Proprio grazie a questa interazione tra una soggettività violenta e un ambiente naturale che non solo ne è testimone ma si genera come tale dentro questa dinamica, la riflessione sul paesaggio incoraggiata dall’arte contemporanea assume le forme di una riflessione sul presente, di una indagine che, attraverso lo sguardo sulle superfici del mondo (che vanno dalla pelle degli umani rappresentata da Glenda Leòn ai corpi tatuati ritratti da Huang Yang, fino alle immagini della superficie terrestre vista dallo spazio elaborate dalla Nasa, in cui ciò che si vede è in realtà solo l’illuminazione artificiale del globo) funziona da critica dell’esistente. Critica che emerge in modo radicale nelle impressionanti fotografie di Fernando Brito in cui alcuni paesaggi naturali fanno da sfondo, appunto paradossale, a cadaveri fatti oggetto di violenza; o, ancora, nel paesaggio di Medellin rappresentato in un video notturno da Carlos Uribe solo attraverso le luci e i colpi delle armi da fuoco che producono una sorta di terrificante cielo stellato sotto il quale vivono gli abitanti di una delle città più violente del mondo.

Più che un’esperienza di trascendimento dei propri limiti il paesaggio contemporaneo sembra dunque riportare la soggettività alla sua dimensione finita, che la tiene ancorata al mondo in cui abita: se nell’infinito leopardiano la siepe è al tempo stesso l’ostacolo che impedisce la visione dell’orizzonte e ciò che consente al pensiero l’oltrepassamento dell’esperienza immediata dei sensi, nel video di Catherine Yass – un viaggio lungo il muro eretto tra Israele e Palestina – non c’è nessuna fuga e nessuna trascendenza, nessuna apertura, nemmeno immaginativa. C’è solo un muro che chiude e separa, che segna e demarca lo spazio, che testimonia quanto l’identificazione degli animali umani con l’ambiente possa diventare l’origine della possibilità stessa di non essere più se stessi.