Agli albori del XX secolo, dei pescatori di spugne greci, ingaggiati da un armatore tunisino, s’immersero al largo di Mahdia – a sud del Golfo di Hammamet – per cercare l’«oro soffice» del Mediterraneo. Esploratori dei fondali dentro scafandri che li rendevano simili a mostruose divinità degli abissi, i loro nostoi sono degni di un’Odissea che nessun aedo ha mai cantato. Quel giorno di primavera del 1907, i palombari «piedi-pesanti» videro qualcosa che non somigliava affatto alle creature marine dai mille pori e dai colori sgargianti, utili per la detersione del corpo: a 40 metri di profondità, sparsi sulla sabbia, giacevano fusti di colonna e oggetti luccicanti.

L’inaspettata scoperta generò ripetuti saccheggi. Ma il tentativo di vendita del bottino fu prontamente intercettato dalle autorità. «Drappier, dopo aver visto oggetti, conferma questa mattina da Mahdia scoperta subacquea di statue Adolescente, Priapo, Bacco, frammenti architettonici, tutto in bronzo».

CON QUESTO TELEGRAMMA, inviato da Tunisi il 21 giugno dello stesso anno, lo storico e archeologo Alfred Merlin – direttore del Servizio di Antichità della Tunisia – annunciava sulla rivista dell’Académie des inscriptions et belles-lettres lo straordinario rinvenimento che promosse, ufficialmente, la nascita dell’archeologia subacquea nel mondo. Sei campagne di scavo furono condotte, tra il 1908 e il 1913, da Louis Poinssot – figlio di Julien, uno dei pionieri dell’archeologia in Tunisia – e dal funzionario amministrativo Louis Drappier.

Oltre alle risorse finanziarie concesse dai governi francese e tunisino, Merlin aveva ottenuto dal Ministero della Marina due torpediniere e il rimorchiatore «Ciclope», distaccati da Biserta. Le ricerche si rivelarono perigliose fin dal principio a causa della profondità e delle forti correnti: il giacimento si trovava infatti in mare aperto, a circa cinque chilometri dal promontorio del Capo d’Africa. La sua localizzazione era ulteriormente complicata dalle informazioni imprecise fornite dai pescatori di spugne.

CURIOSAMENTE, un prezioso aiuto venne dato agli archeologi dal parroco di Mahdia e da un agente consolare, i quali avevano assistito dalle barche dei pescatori greci al recupero delle splendide statue di bronzo. Furono necessarie molte immersioni prima che nel 1908 un sommozzatore, sfinito per la pressione dell’acqua, risalisse in superficie, comunicando che aveva visto «come una serie di grossi cannoni regolarmente disposti e parzialmente interrati nella sabbia»: erano le colonne già segnalate dagli scopritori. Ma una volta individuato il punto, le difficoltà non scomparvero.

IL MARE ERA SPESSO AGITATO e Merlin riferisce che mentre risultava facile legare alle corde gli oggetti affioranti dal deposito fangoso, per poi sollevarli tramite un paranco, era estremamente difficile effettuare delle vere e proprie operazioni di scavo. Più volte, occorsero incidenti gravi e quasi mortali.
Malgrado ciò, fu possibile constatare che non si trattava di una città sommersa, come inizialmente ipotizzato. Vestigia disseminate in un’area circoscritta indicavano, infatti, la presenza di un relitto (lungo approssimativamente 40 metri e largo 13) e del suo carico. I sommozzatori contarono una sessantina di colonne di circa 5 metri di altezza e 70 cm di diametro, ordinate in allineamenti che seguivano il medesimo orientamento.

Un modellino della nave affondata esposto al Bardo

GLI SPAZI tra le file erano colmati da blocchi di marmo e da capitelli, mentre le colonne si serravano progressivamente verso la prua. La forma dell’imbarcazione, insomma, andava delineandosi attraverso i suoi resti. Frammenti di legno, chiodi di rame e rivetti di ferro ridisegnavano lo scafo servito ad affrontare il funesto viaggio. Con audaci interventi, vennero ricondotti in superficie – oltre a centinaia di frammenti ceramici appartenenti ad anfore da trasporto e vasellame di bordo – alcuni capitelli ionici e neo-attici figurati in marmo bianco, eccezionalmente intatti. Erano invece ridotti in vari pezzi quattro crateri (vasi a grande imboccatura per mescere l’acqua e il vino, ndr) monumentali, anch’essi di candido marmo, con decorazioni di pregiata fattura ellenistica: sileni, fauni, satiri e menadi vincevano le concrezioni marine per esibire la raffinatezza dei loro tratti. Nel complesso, osservò Merlin, i reperti apparivano di «un’incredibile freschezza», come se i marmi non fossero mai stati utilizzati.

CHI ERANO, dunque, i destinatari? Da dove era salpata l’imbarcazione? Le domande si susseguivano al ritmo delle immersioni, mentre fu chiaro da subito che quel singolare carico di svariate centinaia di tonnellate aveva contribuito a destabilizzare la nave, la quale s’inabissò assieme alle meraviglie nascoste nella stiva. Gli scavi del 1910 portarono alla scoperta di diverse statuette di bronzo raffiguranti un Eros citaredo e nani danzanti, nonché di alcune applique del medesimo metallo, tra le quali spiccavano i magnifici busti di Atena e di una Nike.

Fra gli altri materiali identificati, bassorilievi, decreti ed epitaffi inscritti in greco permisero di appurare che la nave mercantile era partita dall’Attica. Le indagini ripresero nel 1948, con una spedizione formata dagli archeologi Antoine Poidebard e Gilbert-Charles Picard (il primo era un gesuita, il secondo rappresentava la Reggenza di Tunisi), dal capitano Philippe Taillez e dall’ufficiale di marina Jacques-Yves Cousteau – noto come «comandante Cousteau» -, l’esploratore oceanografico che con il suo celebre battello «Calypso» ebbe un ruolo fondamentale anche negli sviluppi dell’archeologia subacquea.

L’eterogenea équipe beneficiò dell’invenzione degli scafandri autonomi, che consentivano, grazie a una riserva di gas respirabile compresso, immersioni più agevoli e prolungate. In quell’occasione, Cousteau – coadiuvato da Marcel Ichac – girò il documentario Carnet de plongée, presentato nel 1951 al Festival di Cannes.

UNA NUOVA CAMPAGNA di scavi guidata dall’ingegnere Guy de Frondeville si svolse tra il 1953 e il 1954 con l’obiettivo di sgomberare il ponte della nave dalle colonne rimaste in situ, così da poter accedere alle zone del relitto ancora inesplorate. Fu in quel periodo che una porzione della chiglia lunga circa 9 metri venne trasferita, con altri reperti, nella capitale tunisina per essere esposta nell’allora Museo Alaoui.

Le ultime operazioni subacquee risalgono al 1993 nel quadro di una collaborazione tra l’Institut National du Patrimoine di Tunisi e differenti istituzioni culturali tedesche, accordo che ha favorito anche il restauro dell’intero contesto archeologico. Al relitto di Mahdia è oggi dedicata una sala del Museo nazionale del Bardo diretto da Fatma Naït Yghil.

Un recente e suggestivo allestimento mostra ai visitatori ciò che il mare ha sottratto al passato e restituito al presente: frammenti dell’antica nave, poderose ancore, elementi architettonici probabilmente riservati alla costruzione di una sontuosa dimora e un mobilio d’apparato – composto da letti (klinai) di legno con intarsi di bronzo, lampade, candelabri e bracieri riccamente decorati – di eccezionale valore.

L’imbarcazione, partita da Atene, era verosimilmente diretta verso le coste italiane quando una tempesta dovette modificarne la rotta, provocando il naufragio nelle acque di Mahdia tra l’80 e il 70 a.C. Seguendo questa datazione, non condivisa dall’insieme della comunità scientifica, alcuni studiosi sostengono che parte del carico provenga dai monumenti depredati da Silla dopo il vittorioso assedio di Atene dell’86 a.C. Aristocratici romani adepti del gusto ellenistico commissionarono capolavori dell’arte greca.

Avvezzi al lusso, non fecero i conti con quel destino che, secoli dopo, svelò il pegno di un tracotante desiderio a due pescatori giunti anch’essi dall’Egeo.